TRA ARTE E TERAPIA

“Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce. […] Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore devono essere integrate con le ragioni della ragione.”

Gregory Bateson

Arte e scienza , 1967, trad. it. p. 161

TRA ARTE E TERAPIA

Attraverso lo sguardo di Gregory Bateson

Il padre fondatore di tutte le terapie sistemiche, lo sappiamo, è Gregory Bateson, che non è mai stato terapeuta. Eppure la curiosità verso la terapia è sempre stata parte essenziale del suo pensiero. Già nel 1935 Bateson pensava a una psicoterapia diversa da quella in auge nel periodo. Nel 1951, insieme all’antropologo Juergen Ruesch, Bateson scrive La matrice sociale della psichiatria, un libro che immagina un’evoluzione della psichiatria medesima, che integri in qualche modo la visione di quello che definisce “l’umanista” (una figura prossima a quella dell’artista) e lo scienziato. L’umanista, l’artista, è più portato verso la terapia:

“L’umanista sarà sicuramente avvantaggiato nella seduta terapeutica, perché libero di rispondere prontamente e tranquillamente, come un essere umano che si trova di fronte al paziente che è un suo simile. […] L’umanista, come l’artista, può agire spontaneamente a causa della propria integrità e non ha bisogno di fermarsi sempre per stabilire esattamente che cosa sta dicendo.

Gregory Bateson

1951, trad. it. pp. 302-303

D’altro canto, l’umanista non riuscirà a fare scienza, proprio perché le sue intuizioni non possono essere né trasmesse come tali, né tantomeno accumulate. Dal canto suo, lo scienziato che Bateson definisce “circolarista” è limitato dalla sua necessità di definire i termini, che però gli permette di costruire modelli e di essere sempre consapevole del proprio agire.

Lo scienziato […] proprio da questa coercitività e precisione è reso goffo e privo di grazia e di disinvoltura nell’interazione, di cui avrebbe bisogno per essere un bravo terapeuta. Egli può passare anni a costruire le formule matematiche che descrivono l’interazione, mentre l’umanista può apprendere di più su come interagire trascorrendo poche ore in una sala da ballo.”

Gregory Bateson

1951, trad. it. p. 303

Questa scissione rigida tra la figura dell’artista e quella dello scienziato ha certo radici biografiche forti. La più forte di tutte è l’interdetto paterno. William Bateson, padre padrone e severo carattere vittoriano, era zoologo ed è a tutt’oggi ricordato per aver inventato la parola “genetica”. Per William l’arte apparteneva al dominio del sublime, che solo il genio sarebbe stato in grado di raggiungere. Quindi inattingibile per i Bateson, che avrebbero dovuto limitarsi al più consono e modesto dominio della scienza. Nelle parole di Gregory:

La visione di W.B. della letteratura e dell’arte era che erano la cosa più grande del mondo, ma che nessun Bateson sarebbe mai stato capace di contribuirvi. Arte, per lui, significava il Rinascimento, più o meno, e naturalmente nessuno nel ventesimo secolo poteva fare arte rinascimentale. Ma la scienza era qualcosa che si poteva fare. Era più conscia. Non dipendeva dal genio, essendo il genio una qualche sorta di daimon interiore.”

Gregory Bateson

Bateson in Lipset, 1980, p. 93

(Quando aveva scoperto che il secondo figlio, Martin, voleva dedicarsi alla poesia e al teatro lo aveva rampognato duramente, proibendogli di dedicarsi all’arte e Richie cogli di tornare agli studi di biologia. Non fu per questo, probabilmente, che Martin finì per suicidarsi sotto la statua di Eros a Piccadilly Circus, ma c’è da credere che abbia contribuito – e che Gregory non l’abbia mai dimenticato)

Eppure c’è, in questa visione, qualcosa che Bateson si porterà sempre dietro: l’idea che nell’arte ci sia qualcosa “di più”, che l’arte – in un certo senso – abbia già detto tutto. In qualche modo Gregory lo dice anche in questa pagina di Naven:

L’artista […] può permettere che molti degli aspetti più fondamentali della sua cultura siano tratti non dalle sue parole, ma dai suoi accenti. Può scegliere parole il ci suono è più significativo che il loro significato da dizionario e può raggrupparle e sottolinearle così che il lettore quasi inconsciamente riceve informazioni che non sono esplicite nelle frasi e che l’artista troverebbe difficile – quasi impossibile – esprimere in termini analitici.”

Gregory Bateson

1935, pp. 1-2

C’è qui già la posizione problematica di Bateson nei confronti della finalità cosciente, che trova proprio nel dominio dell’estetica una possibilità di superamento senza dover per forza cadere nell’irrazionalismo.

Sostiene Jay Haley (il cui incontro con Bateson avvenne parlando di cinema) che da principio il metodo batesoniano lo aveva confuso: lui, Haley, indagava i contenuti del cinema, partendo da una prospettiva freudiana, mentre Bateson aveva un interesse unicamente formale verso il cinema – come verso l’arte, o, peraltro, verso qualunque altro argomento.

Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce. […] Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore devono essere integrate con le ragioni della ragione.”

Gregory Bateson

1967, trad. it. p. 161

In altre parole: l’arte è integrazione di conscio e inconscio, con qualche riferimento a Freud. Ma, se per Freud l’arte (come il motto di spirito) è soprattutto rivelazione dell’inconscio, per Bateson il processo è più radicale: l’arte svela appieno l’insufficienza della finalità cosciente, restituendo all’inconscio il suo ruolo primario, “costretto – come la prosa – nel letto di Procuste della logica”.

Paolo Bertrando

Un pensiero su “TRA ARTE E TERAPIA

  1. Credo sia proprio superfluo aggiungere il mio assenso a verità che non necessitano conferme, ma accogliere sterilmente senza compromessi o lasciar cadere nell’ovvio credo sia altrettanto spiacevole. Confondersi tra le righe di Bateson per coglierne quell’apparente paradosso vale allora ancor più che comprenderle. Provo a metter parole e concetti un po’ fuori contesto, così come fanno i bambini, tanto poi crescendo anch’io mi organizzerò nella coerenza dei grandi.
    Mi sembra ieri quando caparbiamente la mia memoria insisteva (ero io ad usare la memoria o davo a lei consenso perché fosse li a condurmi?) nel ricostruire i passaggi obbligati del metabolismo epatico, per ritrovare la quota di amine terziarie rimanenti sulla somma di quelle secondarie dominanti, traducendo poi nella linearità del calcolo percentuale quella frazione legata alle proteine che era riserva e non ragione d’effetto sull’umore di chi era depresso. Depresso e per questo da curare con i triciclici! Gli antidepressivi c’erano ed erano efficaci. E proprio perché c’erano, tutto si richiudeva in una raffinata questione quantitativa e di scelta, alla ricerca della conferma d’efficacia: la cura del soggetto diventava allora la giusta catena laterale legata all’anello benzenico.
    Senza parlare delle fatiche classificatorie di una psicopatologia atta all’inquadramento diagnostico: quanto più si crede che l’opinione sia oggettività (siamo noi ad usare l’oggettività o diamo a lei consenso di condurci?), tanto più si commette “peccato di fede” discuterla. Ma è la ragione dell’osservatore che ordina quel che vede, e una volta originata una diagnosi non può rimanere orfana.
    Le scienze mettono sempre tra parentesi l’origine umana delle cose (siamo noi a usare la scienza o facciamo che sia essa a condurci?). Gli uomini sono rapiti dalla scienza, credendo essere questo lo strumento d’analisi puntuale di una realtà sempre sotto indagine; certa, seria e ordinata. Dimenticano però che la realtà non attende il loro sguardo,…..e il suo divenire non ci appartiene, sfuggendo ad ogni indagine, senza più comprensione.
    Una frase di Kapuscinski; “ la comprensione finisce dove inizia l’indagine”. Come dire: bisogna cogliere l’umano prima di arrivare all’uomo e ai suoi strumenti. Cioè; prima delle scienze qualcosa.
    Chissà se le scienze sono l’arte della superficie, dell’intelleggibile per ordine della ragione. E l’arte le scienze del profondo, dell’intelleggibile per ordine dei sensi. Da un lato dimensioni e topologie, dall’altro armonia e grazia.
    Se devo riempire un’orbita vuota non posso che rispettare i parametri di normalità che la natura mi offre, gli unici che mi permetteranno di riprodurre una realtà funzionale allo scopo. È così che la scienza esprime la propria estetica. Diversamente dall’arte, che ad uno strabismo sa dare valore aggiunto, per differenza, emozione creata.
    Ma WB non rinnova quel Platone che dalle arti bandiva quelle mimetiche, impure? E insieme, non dicevano appunto l’inverso delle scienze dall’arte? Platone non rinnegava quelle arti coreiche, scultoree, che dipinte, vitalizzate, forse richiamavano all’angoscia di chi, forse anche la sua, vedendole senza diritto di nascita, avrebbero potuto rubare anche anima ed emozioni agli uomini e alla natura ( una scultura vivente, che scemenza….o un incubo degli dei….o il loro futuro)? Così come poesia e musica, che potevano scuotere insane abiezioni in chi non era all’altezza di adulare nella perfezione e soddisfarsi della creatività della natura?
    Scienza e arte sono un solo prodotto dell’uomo, parti composite di un uno che sono, ma che si separano come strumenti del mio conoscere; la prima sterile e idolatra della natura, osservatrice e replicativa del sublime; la seconda creativa e competitiva nel mistero dell’origine. Ma entrambe li a completare il bisogno di comprendere l’uomo, il suo mondo e l’essenza delle cose.

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