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DIALOGO LGBT+ IN MOVIMENTO

Siamo Liza e Victoria due terapeute messicane che fanno parte della comunità, la prima residente in Messico e la seconda in Italia. Lo scorso giugno abbiamo avuto l’opportunità di assistere allo sviluppo del mese dell’orgoglio LGBT+ in due paesi diversi, Italia e Spagna e, per molti anni, anche in Messico.

Abbiamo deciso di scrivere questo testo a seguito delle conversazioni avviate sulla quantità di contrasti che abbiamo percepito muovendoci in questi tre contesti ed abbiamo sentito il bisogno di aprire questo dialogo. Aprire il dialogo significa per noi rendere pubblico ancora e ancora ciò che tende a rimanere privato e che, durante i due anni della pandemia globale, si è ulteriormente esacerbato. Marciare nuovamente è stato importante per noi perché siamo testimonƏ del fatto che quando il dialogo si svolge in pubblico, acquista più forza di quando si svolge tra quattro mura.

Negli ultimi 50 anni e a partire dalla rivolta di Stonewall, che è stato l’evento catalizzatore affinché la comunità LGBT+ si organizzasse per lottare per i propri diritti, a fine giugno – il 28 o una data vicina – si commemora la Giornata dell’Orgoglio almeno in un posto al mondo.

In un paese su tre l’essere omosessuale è vietato, mentre in 12 paesi è punito con la pena di morte. Il matrimonio egualitario è legale solo in 30 paesi e fra questi non vi è l’Italia.

Il Messico è il secondo paese in America Latina con il maggior numero di violenze omofobiche e transfobiche. La Spagna, sebbene sia uno dei paesi leader in Europa in termini di tutela dei diritti umani, è lo scenario di numerose aggressioni omofobiche che avvengono in spazi pubblici.

Anche se attualmente in Italia, Spagna e Messico si marcia ogni anno in occasione del Pride, la prima marcia in Spagna si è svolta nel 1977, in Messico nel 1979 e in Italia nel 1994. Questo è un fatto importante per noi sotto molti aspetti e uno di questi è la rilevanza che i diritti della comunità hanno raggiunto, per ragioni diverse, in ognuno di questi contesti.

Per noi, vivere la marcia quest’anno ha rappresentato uno spazio di discussione e riflessione, sia a livello personale che collettivo.

Io, Liza, donna cis, messicana, bianca, lesbica.

Io, Victoria, donna cis, messicana, meticcia, immigrata, bisessuale.

Marciamo perché siamo vive per farlo, grazie alla lotta che altrƏ hanno portato avanti, perché anche se non ci sentiamo ancora completamente al sicuro nello spazio pubblico per amare chi vogliamo, viviamo in paesi in cui non è illegale farlo. Marciamo perché non abbiamo mai avuto o sentito il bisogno di fare coming out, ma sappiamo che è un privilegio farlo, perché veniamo da famiglie che a volte abbracciano e a volte rifiutano.

Marciamo perché abbiamo lo stesso diritto ad amare delle persone etero, perché l’orgoglio è pubblico, è collettivo, è la libertà del potere, è la celebrazione di ciò che è stato raggiunto e la lotta per ciò che deve ancora venire. È una forma di resistenza, di visibilità, di insistere nell’amare a letto come nelle strade. Perché anche il piacere, l’amore, la lotta, il corpo, le strade e l’esistenza ci appartengono.

Perché la marcia diventa uno spazio fisico che accoglie la lotta non solo di un giorno o un mese intero. Perché le conquiste della comunità LGBT+ si intrecciano con i trionfi e le fatiche dei Movimenti Verdi e Viola, perché i movimenti femministi hanno aperto la discussione sul tema della sessualità, del genere e della politica ed è attraverso “il personale è politico” che tutte le individualità possono trovare un alveo comune.

Perché parlare di diritti umani deve aprire il dialogo su tutto ciò che storicamente è stato evitato, per motivi morali e religiosi, mantenendo i discorsi nel privato o nell’oblio. Perché partiamo dal presupposto che la nostra esperienza personale di attivismo può generare movimento e cambiamento solo se viene collettivizzata.

Marciamo e alziamo la voce perché siamo anche terapeute e situarsi in questo spazio, personale e professionale, è stato – e continua ad essere – un apprendimento di preparazione teorica, fisica, psicologica ed emotiva. Perché non siamo fatte di fede ma di speranza, perché ci piace stare dentro l’uragano e non siamo nella posizione di essere indifferenti. Provocare movimento e metterci in discussione nel nostro contesto, insieme ai nostri gruppi di appartenenza e insieme a i nostrƏ clientƏ, è una necessità e un impegno.

Non concepiamo un lavoro terapeutico che non tenga conto dell’intersezione delle lotte per i diritti umani, che non metta in discussione le idee della psicologia tradizionale, che fino al 1973 considerava l’omosessualità come un disturbo e continua a considerare la disforia di genere come tale. Perché facciamo parte dei sistemi istituzionali – compreso il sistema sanitario – che continuano a discriminare i membri della comunità, attraverso la negazione delle cure mediche, il divieto di donare il sangue, la discriminazione nell’accesso al lavoro e all’istruzione, oltre a molte altre forme di violenza. Perché molti operatori sanitari – compresƏ i psicologƏ – continuano a lavorare per correggere e non per capire e accompagnare.

Scriviamo questo articolo per celebrare ciò che è stato raggiunto e per invitare al dialogo su ciò che ancora manca. Il confronto tra le nostre esperienze in tre paesi diversi ci ricorda quanto siamo fortunate a provenire da un paese in cui il matrimonio LGBT+ non è ancora legale a livello nazionale, ma dove possiamo scegliere di sposare chi vogliamo. Tuttavia, la libertà e la sicurezza che abbiamo provato marciando in Spagna ci fanno desiderare di poterci sentire allo stesso modo camminando per le vie del Messico. Da parte sua, il Modello Dialogico è stato in Italia uno spazio per essere irriverenti, per essere curiose, per situarci.

Perché la lotta collettiva si svolge nelle strade, ma anche nei nostri studi, mettendo in dialogo ciò che non viene nominato, ciò che è stato messo a tacere, ciò che a volte non vediamo nemmeno noi; si tratta di intessere e disfare assieme, delle conversazioni che commuovono e trasformano. Si tratta del fatto che il professionale è anche personale e il personale è sempre politico.

Liza Pérez-Moreno Rosa

Victoria Cervantes Camacho

TRA ARTE E TERAPIA

“Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce. […] Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore devono essere integrate con le ragioni della ragione.”

Gregory Bateson

Arte e scienza , 1967, trad. it. p. 161

TRA ARTE E TERAPIA

Attraverso lo sguardo di Gregory Bateson

Il padre fondatore di tutte le terapie sistemiche, lo sappiamo, è Gregory Bateson, che non è mai stato terapeuta. Eppure la curiosità verso la terapia è sempre stata parte essenziale del suo pensiero. Già nel 1935 Bateson pensava a una psicoterapia diversa da quella in auge nel periodo. Nel 1951, insieme all’antropologo Juergen Ruesch, Bateson scrive La matrice sociale della psichiatria, un libro che immagina un’evoluzione della psichiatria medesima, che integri in qualche modo la visione di quello che definisce “l’umanista” (una figura prossima a quella dell’artista) e lo scienziato. L’umanista, l’artista, è più portato verso la terapia:

“L’umanista sarà sicuramente avvantaggiato nella seduta terapeutica, perché libero di rispondere prontamente e tranquillamente, come un essere umano che si trova di fronte al paziente che è un suo simile. […] L’umanista, come l’artista, può agire spontaneamente a causa della propria integrità e non ha bisogno di fermarsi sempre per stabilire esattamente che cosa sta dicendo.

Gregory Bateson

1951, trad. it. pp. 302-303

D’altro canto, l’umanista non riuscirà a fare scienza, proprio perché le sue intuizioni non possono essere né trasmesse come tali, né tantomeno accumulate. Dal canto suo, lo scienziato che Bateson definisce “circolarista” è limitato dalla sua necessità di definire i termini, che però gli permette di costruire modelli e di essere sempre consapevole del proprio agire.

Lo scienziato […] proprio da questa coercitività e precisione è reso goffo e privo di grazia e di disinvoltura nell’interazione, di cui avrebbe bisogno per essere un bravo terapeuta. Egli può passare anni a costruire le formule matematiche che descrivono l’interazione, mentre l’umanista può apprendere di più su come interagire trascorrendo poche ore in una sala da ballo.”

Gregory Bateson

1951, trad. it. p. 303

Questa scissione rigida tra la figura dell’artista e quella dello scienziato ha certo radici biografiche forti. La più forte di tutte è l’interdetto paterno. William Bateson, padre padrone e severo carattere vittoriano, era zoologo ed è a tutt’oggi ricordato per aver inventato la parola “genetica”. Per William l’arte apparteneva al dominio del sublime, che solo il genio sarebbe stato in grado di raggiungere. Quindi inattingibile per i Bateson, che avrebbero dovuto limitarsi al più consono e modesto dominio della scienza. Nelle parole di Gregory:

La visione di W.B. della letteratura e dell’arte era che erano la cosa più grande del mondo, ma che nessun Bateson sarebbe mai stato capace di contribuirvi. Arte, per lui, significava il Rinascimento, più o meno, e naturalmente nessuno nel ventesimo secolo poteva fare arte rinascimentale. Ma la scienza era qualcosa che si poteva fare. Era più conscia. Non dipendeva dal genio, essendo il genio una qualche sorta di daimon interiore.”

Gregory Bateson

Bateson in Lipset, 1980, p. 93

(Quando aveva scoperto che il secondo figlio, Martin, voleva dedicarsi alla poesia e al teatro lo aveva rampognato duramente, proibendogli di dedicarsi all’arte e Richie cogli di tornare agli studi di biologia. Non fu per questo, probabilmente, che Martin finì per suicidarsi sotto la statua di Eros a Piccadilly Circus, ma c’è da credere che abbia contribuito – e che Gregory non l’abbia mai dimenticato)

Eppure c’è, in questa visione, qualcosa che Bateson si porterà sempre dietro: l’idea che nell’arte ci sia qualcosa “di più”, che l’arte – in un certo senso – abbia già detto tutto. In qualche modo Gregory lo dice anche in questa pagina di Naven:

L’artista […] può permettere che molti degli aspetti più fondamentali della sua cultura siano tratti non dalle sue parole, ma dai suoi accenti. Può scegliere parole il ci suono è più significativo che il loro significato da dizionario e può raggrupparle e sottolinearle così che il lettore quasi inconsciamente riceve informazioni che non sono esplicite nelle frasi e che l’artista troverebbe difficile – quasi impossibile – esprimere in termini analitici.”

Gregory Bateson

1935, pp. 1-2

C’è qui già la posizione problematica di Bateson nei confronti della finalità cosciente, che trova proprio nel dominio dell’estetica una possibilità di superamento senza dover per forza cadere nell’irrazionalismo.

Sostiene Jay Haley (il cui incontro con Bateson avvenne parlando di cinema) che da principio il metodo batesoniano lo aveva confuso: lui, Haley, indagava i contenuti del cinema, partendo da una prospettiva freudiana, mentre Bateson aveva un interesse unicamente formale verso il cinema – come verso l’arte, o, peraltro, verso qualunque altro argomento.

Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce. […] Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore devono essere integrate con le ragioni della ragione.”

Gregory Bateson

1967, trad. it. p. 161

In altre parole: l’arte è integrazione di conscio e inconscio, con qualche riferimento a Freud. Ma, se per Freud l’arte (come il motto di spirito) è soprattutto rivelazione dell’inconscio, per Bateson il processo è più radicale: l’arte svela appieno l’insufficienza della finalità cosciente, restituendo all’inconscio il suo ruolo primario, “costretto – come la prosa – nel letto di Procuste della logica”.

Paolo Bertrando

GENERE: CHE COSA É UNA LESBICA?

Parlando di genere, le questioni relative all’orientamento sessuale oggi hanno una rilevanza sicura. Vogliamo allora proporre Il metalogo che Claudia Lini ha creato insieme a Katia Acquafredda qualche tempo fa, perché ci propone riflessioni e spunti che continuano a essere attuali (un metalogo è, secondo Gregory Bateson, un dialogo in cui la forma corrisponde in qualche modo all’argomento).

CHE COSA É UNA LESBICA?

Questioni di genere in psicoterapia, tra queer theory e sistematico

Caterina Acquafredda
Claudia Lini
«È facile essere oggettivi sul sesso, ma non sull’amore »
Gregory Bateson, 1969

K Così oggi parliamo di lesbiche!

C Hai visto? Io veramente è un po’ che mi occupo di questo tema, ti ricordo che abbiamo pure formato un’equipe terapeutica chiamata “Autopoietica” dedicata proprio alle donne con problematiche inerenti un orientamento non etero, presso la più antica associazione lesbica milanese, il CDM.

K Complimenti! Chissà come saranno stati contenti i tuoi professori! Per non dire di quello che avranno pensato i colleghi …

C Dici che questa cosa avrà dato da pensare? In effetti qualcuno mi ha detto con aria grave: se ti occupi di lesbiche, avrai qualcosa di irrisolto …

K Effettivamente, analizzabile o no, un “irrisolto” non dovrebbe proprio entrare nella stanza di terapia, se non dal lato giusto dello specchio!

C Che come si sa è unidirezionale: la cibernetica di secondo ordine non ve la  fanno più studiare?

K Sono solo al terzo anno, e poi faccio il medico! Comunque adesso sei qua con me davanti a tutte queste persone, con un bel rischio per la tua rispettabilità, la tua credibilità professionale. Io faccio la lesbica, qual è la tua scusa?

C Io sono curiosa, e mi piace guardare le cose da vicino. E poi non ho mica tanta paura sai? Secondo me, tu certe volte esageri con questa storia delle lesbiche!

K OK. Ripartiamo dal titolo? Che cos’è una lesbica?

C Una lesbica è una donna che ama le donne!

K Interessante – sembra facile …

C Come un “principio dormitivo”!

K Quindi una donna che ama le donne la chiamiamo lesbica …

C E la chiamiamo lesbica!

K Che parola adopereresti invece per una donna che venisse a dirti di aver sentito per tutta la vita questo desiderio, e di non aver mai avuto una relazione con una donna?

C Mah, senti, credo che la chiamerei ancora lesbica …

K Anche se si è sposata? Se ha avuto dei figli?

C Certe volte penso che gli studi di biochimica finiscano per distruggere il cervello a voi medici! Ma non li leggi i giornali femminili? E’ pieno di storie così, e spesso sono proprio queste donne a dirsi, ad un certo punto della loro vita, lesbiche. Ti dirò che recentemente mi è capitato, al CDM, che una donna in consultazione venisse a chiederlo proprio a me, se era lesbica.

K Voleva la patente?

C Diciamo che era un po’ preoccupata e confusa, e si chiedeva: sarò lesbica?

K Un bel dilemma! E cosa mi dici di quelle donne che, nel corso della loro vita, si innamorano sempre di donne, e in terapia vengono a dirti che non sono lesbiche? Che si sono innamorate di qualcuna perché lei è davvero speciale come persona, ma che se l’avessero incontrata in un corpo di uomo sarebbero etero? Le chiameresti lo stesso lesbiche, anche se non vogliono definirsi così?

C No, no, dipende … più che altro mi verrebbe da chiedermi, come sistemica, cosa c’è di tanto brutto in questa parola da rendere così difficile adottarla per una  che viva questa esperienza.

K Allargheresti il campo al contesto, familiare e sociale, per cercare di capire come mai “lesbica “ è ancora oggi una parola difficile?

C Cacofonica, verrebbe quasi da dire! E poi mi sono accorta, con le consultazioni al CDM, che ci vuole tempo per imparare a usarla. Non viviamo in un eterno presente, e questa parola non è fuori dal tempo, individuale e collettivo. E’ successo anche a me: sai che una volta avevo quasi paura di offenderti se dicevo che eri lesbica?

K Bei tempi, quando ti preoccupavi per me! Trovo che la questione del tempo sia sempre affascinante, anche nel caso delle lesbiche: quando questa esperienza irrompe nella vita di una donna è come se le lancette del tempo tornassero indietro, a una nuova adolescenza, per poi rimettersi a correre, quasi a dover  recuperare il tempo perso.

C E’ per questo che avete quest’arietta da eterne ragazze?

K In effetti ci sono dei vantaggi!

K Già: ma che parola è questa, che quasi non si può usare? Proviamo a essere un po’ scientifiche, su questa cosa delle lesbiche.

C Come vuoi: ti ricordo però che sei già al terzo anno, e questa fase avresti dovuto lasciarla da un po’.

K Se vuoi puoi farmi un test! Credo che sia solo un lieve ritardo …

C Te lo concedo solo perché sei lesbica. Volevo dire: solo perché sei medico. Insomma, capisco che non sia facile per te!

K Sai da dove viene questa parola, almeno?

C Lesbica? Ti prego, Katia, non fare così!

K La parola “lesbica” deriva dall’isola di Lesbo, situata nell’Egeo nord-orientale, e famosa per essere stata la terra natia della poetessa Saffo; terza per grandezza tra le isole dell’arcipelago greco, ospita circa novantamila abitanti …

C Ho studiato geografia al liceo, e letto Saffo: possiamo andare avanti?

K Ora facciamo sul serio.

C ?

K Sulla parola “lesbica”, intendo.

C Un tantino identitaria ed essenzialista, se posso permettermi…

K E’ come un binario, che parte dal sesso. 

C Anche questa la so! La questione Eterosessualità/Omosessualità procede da un dato biologico, si nasce maschio o femmina. Poi c’è la costruzione sociale del genere, che è culturale, performativa, fondata sulla ripetizione di comportamenti attesi: l’uomo e la donna come tradizionalmente intesi, e cioè eterosessuali.

K Vedo che abbiamo cominciato a studiare la Butler, la trovi ostica?

C Ti ricordo che sei sempre al terzo anno!

K Hai ragione, scusa!

C Comunque, la questione è che, grazie anche al fatto che con te non si può più parlar d’altro, abbiamo assodato che l’omosessualità è solo un’altra variante del comportamento umano. In fondo non c’è niente di difficile da capire.

K Un tantino essenzialista, e identitario, se mi permetti.

C A me lo dici? Siete voi che volete essere chiamate lesbiche! Non siamo mica noi etero ad aver inventato il Gay Pride!

K OK, ma ora proviamo ad andare più indietro, più su del genere.

C Come, più su del genere? Ci sono la biologia e i geni, e su quelli credo proprio che noi abbiamo poco da dire.

K Adesso chi è l’essenzialista?

C Cosa vuoi dire? Il dato biologico mica si può cambiare!

K Cosa mi dici degli intersessuati?

C Sei anche tu una fan di Lady Gaga?

K Non mi piace la sua musica, ma la questione dell’ambiguità sessuale ha delle enormi implicazioni teoriche.

C Dai Ka, stiamo parlando di una percentuale ridicola del genere umano!

K Stando a studi neanche troppo recenti, la percentuale non è così irrilevante: una persona su cento nasce con un corpo differente da quello del maschio e della femmina come descritti nei libri di anatomia umana “normale”. Ti sembra poco? Il numero delle persone cui verrebbe “normalizzata” l’apparenza genitale attraverso la chirurgia nel corso della vita, sarebbe di circa  uno su mille.

C Interessante, ma dove vorresti arrivare con questo? Ti ricordi, vero, che  ci  hanno chiesto di parlare solo di lesbiche? Dove ci porta tutto questo?

K Ci porta, per esempio, a dire che non solo il genere, ma anche il sesso – cioè quello che consideriamo il nocciolo su cui si struttura l’identità di una persona, sembra costruito socialmente, performativo e basato sulla ripetizione.

C Come il genere …

K Esatto. Non dico quantitativamente, ma se anche riguardasse una sola persona al mondo (e non è così), metterebbe in crisi tutto l’impianto teorico che parte dalle categorie di maschio e femmina, passa per quelle di uomo e donna e arriva a definire le persone come eterosessuali, omosessuali o lesbiche.

C Proprio ora che l’avevamo capita bene. Mi sembra che lo fate apposta per   complicare la vita a noi terapeuti sistemici e progressisti!

K Ma non è von Foester che afferma che lavoriamo per allargare le possibilità?

C Dici che dovremmo allargare le possibilità fino a scardinare il senso stesso del binarismo sessuale? A chi servirebbe?

K Magari a «chi sa che cosa significa vivere all’interno del mondo sociale in un ruolo impossibile, illeggibile, irrealizzabile, irreale e illegittimo»[1], e questa è la Butler, cara! Alle persone strane, queer, gente che magari verrà in terapia  da te, insieme a tanti altri che potrebbero anche pensarsi al di fuori della normatività del genere.

C Sistemi bloccati, persone che vivono una grande sofferenza, e che spesso bussano alla porta dello psicologo per chiedere chi, o cosa sono …

K Con l’idea perfetta dei ruoli sociali costruiti sul gender …

C Aspetta, aspetta, tu dici che ripensare il genere e il sesso, fin dai suoi fondamenti essenzialisti o biologici, sfiderebbe in modo più radicale le nostre premesse epistemologiche, aumentando per tutti le alternative di scelta? Ma allora dovremmo eliminare tutte queste parole, maschio/femmina, uomo/ donna! Ammettiamo pure che sia possibile, che fine farebbe quella parolina che ti piace tanto, e di cui ci hanno gentilmente invitate a parlare oggi?

K La parola “lesbica”, dici?

C Cacofonica, difficile, ma evocativa e densa di significati: va a finire che mi ci sono pure affezionata!!! E tu vorresti sostituirla con tanti asterischi, come fanno i sostenitori delle teorie queer che ti piacciono tanto? Ci hai pensato bene?

 

K Ti racconto una storia, e poi ce ne andiamo. Nel 2008, un certo signor Dimitris, nato sull’isola di Lesbo, ha intentato una causa civile contro un’associazione gay-lesbica greca colpevole, secondo lui, di essersi appropriata di questa parola che invece, “di diritto”, spetterebbe ai soli abitanti dell’isola. Ha perfino sostenuto che fosse offensivo che sua sorella, viaggiando per il mondo, venisse chiamata lesbica, pur essendo etero!

C Il colmo dei colmi, in effetti! Una lesbica che fa la etero è quasi peggio del  cretese mentitore! Ma che avranno questi greci, coi paradossi???

K Che ne so!

C Dimmi chi ha vinto, alla fine.

K Il tribunale di Atene ha dato ragione alle lesbiche, quelle di Saffo, o dell’associazione gay-lesbica, se preferisci.

C Meno male! Ci mancava che, oltre che cacofonica e difficile, diventasse pure illegale! E chi ti sopportava più?

K Anche se non illegale, è sempre una parola difficile da usare per chi deve assumerla in prima persona, e questo come terapeute dovremmo sempre tenerlo presente. Come non ci possiamo dimenticare che la usiamo tra virgolette e non in un senso essenzialista, identitario o normativo… il fatto che sia una parola utile non ci libera dalla necessità di pensarla in modo più complesso, e di tenere presente tutte queste cose. Mica saremo sistemiche per niente! A proposito di cose complicate, non mi hai detto cosa hai risposto a quella tua cliente che voleva sapere se era lesbica …

C Ho cercato di spiegarle che io sono esperta solo del mie sentire, e che forse le nostre conversazioni, in terapia, l’avrebbero aiutata a trovare la sua risposta.

K Coi nostri studi ricerchiamo la bellezza, e non il sapere …

C Vedo che studi Bateson, brava! Senti, mi hai stancata e mi hai pure confuso un po’  le idee! E, sopratutto, dopo tutto questo bel discorso oltre il binarismo di genere, potrò continuare a fare la femmina come al solito?

K Mi farebbe molto piacere!

C E questa parola, continuiamo a usarla?

K Sì, dai… è quasi nuova!

C Posso chiamarti ancora “lesbica”?

K Anche senza virgolette, se vuoi! 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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(Tr. it:  “Verso un’ecologia della Mente”, Adelphi, 1977)
BOSCOLO, L, BERTRANDO, P. ,“I tempi del tempo”, Ed. Bollati Boringhieri, 1993
BUTLER, J., “Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity”, 1990
(Tr. it :“Scambi di genere”, Sansoni 2004)
CECCHIN, G, APOLLONI, T, “Idee perfette, Hybris delle prigioni della mente”, Ed. Franco Angeli, 2004
DE LAURETIS, T , “The Practice of Love: Lesbian Sexuality and Perverse Desire Bloomington”, Indiana University Press, 1994  (Tr. it: “Pratica d’amore: Percorsi del desiderio perverso”,  Ed. La Tartaruga, 1997)
FAUSTO-STERLING, A., “The Five Sexes, Revisited”, Sciences 40, 2000
FOESTER V, H, “Sistemi che osservano”, Astrolabio, 1987
LINGIARDI, V., “Citizen gay”, Ed. Il Saggiatore, 2007
PRECIADO, B., “Manifesto contra-sessuale”, Ed. Il dito e la luna, 2002