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GENERE: CHE COSA É UNA LESBICA?

Parlando di genere, le questioni relative all’orientamento sessuale oggi hanno una rilevanza sicura. Vogliamo allora proporre Il metalogo che Claudia Lini ha creato insieme a Katia Acquafredda qualche tempo fa, perché ci propone riflessioni e spunti che continuano a essere attuali (un metalogo è, secondo Gregory Bateson, un dialogo in cui la forma corrisponde in qualche modo all’argomento).

CHE COSA É UNA LESBICA?

Questioni di genere in psicoterapia, tra queer theory e sistematico

Caterina Acquafredda
Claudia Lini
«È facile essere oggettivi sul sesso, ma non sull’amore »
Gregory Bateson, 1969

K Così oggi parliamo di lesbiche!

C Hai visto? Io veramente è un po’ che mi occupo di questo tema, ti ricordo che abbiamo pure formato un’equipe terapeutica chiamata “Autopoietica” dedicata proprio alle donne con problematiche inerenti un orientamento non etero, presso la più antica associazione lesbica milanese, il CDM.

K Complimenti! Chissà come saranno stati contenti i tuoi professori! Per non dire di quello che avranno pensato i colleghi …

C Dici che questa cosa avrà dato da pensare? In effetti qualcuno mi ha detto con aria grave: se ti occupi di lesbiche, avrai qualcosa di irrisolto …

K Effettivamente, analizzabile o no, un “irrisolto” non dovrebbe proprio entrare nella stanza di terapia, se non dal lato giusto dello specchio!

C Che come si sa è unidirezionale: la cibernetica di secondo ordine non ve la  fanno più studiare?

K Sono solo al terzo anno, e poi faccio il medico! Comunque adesso sei qua con me davanti a tutte queste persone, con un bel rischio per la tua rispettabilità, la tua credibilità professionale. Io faccio la lesbica, qual è la tua scusa?

C Io sono curiosa, e mi piace guardare le cose da vicino. E poi non ho mica tanta paura sai? Secondo me, tu certe volte esageri con questa storia delle lesbiche!

K OK. Ripartiamo dal titolo? Che cos’è una lesbica?

C Una lesbica è una donna che ama le donne!

K Interessante – sembra facile …

C Come un “principio dormitivo”!

K Quindi una donna che ama le donne la chiamiamo lesbica …

C E la chiamiamo lesbica!

K Che parola adopereresti invece per una donna che venisse a dirti di aver sentito per tutta la vita questo desiderio, e di non aver mai avuto una relazione con una donna?

C Mah, senti, credo che la chiamerei ancora lesbica …

K Anche se si è sposata? Se ha avuto dei figli?

C Certe volte penso che gli studi di biochimica finiscano per distruggere il cervello a voi medici! Ma non li leggi i giornali femminili? E’ pieno di storie così, e spesso sono proprio queste donne a dirsi, ad un certo punto della loro vita, lesbiche. Ti dirò che recentemente mi è capitato, al CDM, che una donna in consultazione venisse a chiederlo proprio a me, se era lesbica.

K Voleva la patente?

C Diciamo che era un po’ preoccupata e confusa, e si chiedeva: sarò lesbica?

K Un bel dilemma! E cosa mi dici di quelle donne che, nel corso della loro vita, si innamorano sempre di donne, e in terapia vengono a dirti che non sono lesbiche? Che si sono innamorate di qualcuna perché lei è davvero speciale come persona, ma che se l’avessero incontrata in un corpo di uomo sarebbero etero? Le chiameresti lo stesso lesbiche, anche se non vogliono definirsi così?

C No, no, dipende … più che altro mi verrebbe da chiedermi, come sistemica, cosa c’è di tanto brutto in questa parola da rendere così difficile adottarla per una  che viva questa esperienza.

K Allargheresti il campo al contesto, familiare e sociale, per cercare di capire come mai “lesbica “ è ancora oggi una parola difficile?

C Cacofonica, verrebbe quasi da dire! E poi mi sono accorta, con le consultazioni al CDM, che ci vuole tempo per imparare a usarla. Non viviamo in un eterno presente, e questa parola non è fuori dal tempo, individuale e collettivo. E’ successo anche a me: sai che una volta avevo quasi paura di offenderti se dicevo che eri lesbica?

K Bei tempi, quando ti preoccupavi per me! Trovo che la questione del tempo sia sempre affascinante, anche nel caso delle lesbiche: quando questa esperienza irrompe nella vita di una donna è come se le lancette del tempo tornassero indietro, a una nuova adolescenza, per poi rimettersi a correre, quasi a dover  recuperare il tempo perso.

C E’ per questo che avete quest’arietta da eterne ragazze?

K In effetti ci sono dei vantaggi!

K Già: ma che parola è questa, che quasi non si può usare? Proviamo a essere un po’ scientifiche, su questa cosa delle lesbiche.

C Come vuoi: ti ricordo però che sei già al terzo anno, e questa fase avresti dovuto lasciarla da un po’.

K Se vuoi puoi farmi un test! Credo che sia solo un lieve ritardo …

C Te lo concedo solo perché sei lesbica. Volevo dire: solo perché sei medico. Insomma, capisco che non sia facile per te!

K Sai da dove viene questa parola, almeno?

C Lesbica? Ti prego, Katia, non fare così!

K La parola “lesbica” deriva dall’isola di Lesbo, situata nell’Egeo nord-orientale, e famosa per essere stata la terra natia della poetessa Saffo; terza per grandezza tra le isole dell’arcipelago greco, ospita circa novantamila abitanti …

C Ho studiato geografia al liceo, e letto Saffo: possiamo andare avanti?

K Ora facciamo sul serio.

C ?

K Sulla parola “lesbica”, intendo.

C Un tantino identitaria ed essenzialista, se posso permettermi…

K E’ come un binario, che parte dal sesso. 

C Anche questa la so! La questione Eterosessualità/Omosessualità procede da un dato biologico, si nasce maschio o femmina. Poi c’è la costruzione sociale del genere, che è culturale, performativa, fondata sulla ripetizione di comportamenti attesi: l’uomo e la donna come tradizionalmente intesi, e cioè eterosessuali.

K Vedo che abbiamo cominciato a studiare la Butler, la trovi ostica?

C Ti ricordo che sei sempre al terzo anno!

K Hai ragione, scusa!

C Comunque, la questione è che, grazie anche al fatto che con te non si può più parlar d’altro, abbiamo assodato che l’omosessualità è solo un’altra variante del comportamento umano. In fondo non c’è niente di difficile da capire.

K Un tantino essenzialista, e identitario, se mi permetti.

C A me lo dici? Siete voi che volete essere chiamate lesbiche! Non siamo mica noi etero ad aver inventato il Gay Pride!

K OK, ma ora proviamo ad andare più indietro, più su del genere.

C Come, più su del genere? Ci sono la biologia e i geni, e su quelli credo proprio che noi abbiamo poco da dire.

K Adesso chi è l’essenzialista?

C Cosa vuoi dire? Il dato biologico mica si può cambiare!

K Cosa mi dici degli intersessuati?

C Sei anche tu una fan di Lady Gaga?

K Non mi piace la sua musica, ma la questione dell’ambiguità sessuale ha delle enormi implicazioni teoriche.

C Dai Ka, stiamo parlando di una percentuale ridicola del genere umano!

K Stando a studi neanche troppo recenti, la percentuale non è così irrilevante: una persona su cento nasce con un corpo differente da quello del maschio e della femmina come descritti nei libri di anatomia umana “normale”. Ti sembra poco? Il numero delle persone cui verrebbe “normalizzata” l’apparenza genitale attraverso la chirurgia nel corso della vita, sarebbe di circa  uno su mille.

C Interessante, ma dove vorresti arrivare con questo? Ti ricordi, vero, che  ci  hanno chiesto di parlare solo di lesbiche? Dove ci porta tutto questo?

K Ci porta, per esempio, a dire che non solo il genere, ma anche il sesso – cioè quello che consideriamo il nocciolo su cui si struttura l’identità di una persona, sembra costruito socialmente, performativo e basato sulla ripetizione.

C Come il genere …

K Esatto. Non dico quantitativamente, ma se anche riguardasse una sola persona al mondo (e non è così), metterebbe in crisi tutto l’impianto teorico che parte dalle categorie di maschio e femmina, passa per quelle di uomo e donna e arriva a definire le persone come eterosessuali, omosessuali o lesbiche.

C Proprio ora che l’avevamo capita bene. Mi sembra che lo fate apposta per   complicare la vita a noi terapeuti sistemici e progressisti!

K Ma non è von Foester che afferma che lavoriamo per allargare le possibilità?

C Dici che dovremmo allargare le possibilità fino a scardinare il senso stesso del binarismo sessuale? A chi servirebbe?

K Magari a «chi sa che cosa significa vivere all’interno del mondo sociale in un ruolo impossibile, illeggibile, irrealizzabile, irreale e illegittimo»[1], e questa è la Butler, cara! Alle persone strane, queer, gente che magari verrà in terapia  da te, insieme a tanti altri che potrebbero anche pensarsi al di fuori della normatività del genere.

C Sistemi bloccati, persone che vivono una grande sofferenza, e che spesso bussano alla porta dello psicologo per chiedere chi, o cosa sono …

K Con l’idea perfetta dei ruoli sociali costruiti sul gender …

C Aspetta, aspetta, tu dici che ripensare il genere e il sesso, fin dai suoi fondamenti essenzialisti o biologici, sfiderebbe in modo più radicale le nostre premesse epistemologiche, aumentando per tutti le alternative di scelta? Ma allora dovremmo eliminare tutte queste parole, maschio/femmina, uomo/ donna! Ammettiamo pure che sia possibile, che fine farebbe quella parolina che ti piace tanto, e di cui ci hanno gentilmente invitate a parlare oggi?

K La parola “lesbica”, dici?

C Cacofonica, difficile, ma evocativa e densa di significati: va a finire che mi ci sono pure affezionata!!! E tu vorresti sostituirla con tanti asterischi, come fanno i sostenitori delle teorie queer che ti piacciono tanto? Ci hai pensato bene?

 

K Ti racconto una storia, e poi ce ne andiamo. Nel 2008, un certo signor Dimitris, nato sull’isola di Lesbo, ha intentato una causa civile contro un’associazione gay-lesbica greca colpevole, secondo lui, di essersi appropriata di questa parola che invece, “di diritto”, spetterebbe ai soli abitanti dell’isola. Ha perfino sostenuto che fosse offensivo che sua sorella, viaggiando per il mondo, venisse chiamata lesbica, pur essendo etero!

C Il colmo dei colmi, in effetti! Una lesbica che fa la etero è quasi peggio del  cretese mentitore! Ma che avranno questi greci, coi paradossi???

K Che ne so!

C Dimmi chi ha vinto, alla fine.

K Il tribunale di Atene ha dato ragione alle lesbiche, quelle di Saffo, o dell’associazione gay-lesbica, se preferisci.

C Meno male! Ci mancava che, oltre che cacofonica e difficile, diventasse pure illegale! E chi ti sopportava più?

K Anche se non illegale, è sempre una parola difficile da usare per chi deve assumerla in prima persona, e questo come terapeute dovremmo sempre tenerlo presente. Come non ci possiamo dimenticare che la usiamo tra virgolette e non in un senso essenzialista, identitario o normativo… il fatto che sia una parola utile non ci libera dalla necessità di pensarla in modo più complesso, e di tenere presente tutte queste cose. Mica saremo sistemiche per niente! A proposito di cose complicate, non mi hai detto cosa hai risposto a quella tua cliente che voleva sapere se era lesbica …

C Ho cercato di spiegarle che io sono esperta solo del mie sentire, e che forse le nostre conversazioni, in terapia, l’avrebbero aiutata a trovare la sua risposta.

K Coi nostri studi ricerchiamo la bellezza, e non il sapere …

C Vedo che studi Bateson, brava! Senti, mi hai stancata e mi hai pure confuso un po’  le idee! E, sopratutto, dopo tutto questo bel discorso oltre il binarismo di genere, potrò continuare a fare la femmina come al solito?

K Mi farebbe molto piacere!

C E questa parola, continuiamo a usarla?

K Sì, dai… è quasi nuova!

C Posso chiamarti ancora “lesbica”?

K Anche senza virgolette, se vuoi! 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ARGENTIERI, S., “A qualcuno piace uguale”, Ed. Einaudi, 2010BATESON, G, “Steps to an Ecology of Mind” Ed. Paladin Books, 1973
(Tr. it:  “Verso un’ecologia della Mente”, Adelphi, 1977)
BOSCOLO, L, BERTRANDO, P. ,“I tempi del tempo”, Ed. Bollati Boringhieri, 1993
BUTLER, J., “Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity”, 1990
(Tr. it :“Scambi di genere”, Sansoni 2004)
CECCHIN, G, APOLLONI, T, “Idee perfette, Hybris delle prigioni della mente”, Ed. Franco Angeli, 2004
DE LAURETIS, T , “The Practice of Love: Lesbian Sexuality and Perverse Desire Bloomington”, Indiana University Press, 1994  (Tr. it: “Pratica d’amore: Percorsi del desiderio perverso”,  Ed. La Tartaruga, 1997)
FAUSTO-STERLING, A., “The Five Sexes, Revisited”, Sciences 40, 2000
FOESTER V, H, “Sistemi che osservano”, Astrolabio, 1987
LINGIARDI, V., “Citizen gay”, Ed. Il Saggiatore, 2007
PRECIADO, B., “Manifesto contra-sessuale”, Ed. Il dito e la luna, 2002

 

CORPI IN RELAZIONE

CORPI IN RELAZIONE

Riflessioni di una terapeuta in relazione al corpo.

Il mio consultante, Arturo, e io, siamo più o meno a metà seduta. Gli chiedo:

SE QUELL’UOMO CHE GUARDI QUANDO TI TROVI DI FRONTE ALLO SPECCHIO FOSSE QUI CON NOI, COSA MI DIREBBE DELLA TUA CAPACITÀ DI ESSERE AMOREVOLE E GENTILE CON CHI TI CIRCONDA?

Lui risponde che non si guarda allo specchio da tanto tempo, e che anni fa, quando incontrava quel riflesso di sé, si diceva gli aggettivi più crudeli e svalutanti che trovava nel suo lessico. Arturo è un uomo bruno, basso di statura, i suoi lineamenti sono autoctoni, indigeni, il suo naso è grosso, la sua bocca è carnosa e il suo viso è rotondo. Non l’ho mai visto senza cappellino e porta gli occhiali. È un uomo di carattere mite, gentile e un po’ timido; ha un corpo muscoloso e ben allenato, si allena in palestra da diversi anni; ha iniziato a farlo “come un modo per elaborare la rabbia”, una rabbia verso se stesso per non essere “abbastanza” per la sua ex compagna con cui era stato per sette anni. È messicano e vive in Arizona e, sebbene abbia studiato ingegneria e sia stato il primo membro della sua famiglia a laurearsi, lavora come cameriere in un albergo; ha nel suo bagaglio una storia di migrazione forzata a causa della condizione socioeconomica storicamente svantaggiata della sua famiglia.

Il corpo non è senza un “non-corpo”, la pelle che abitiamo ci collega al mondo e allo stesso tempo ci limita, ci rende individui ed esseri in relazione. Il corpo enuncia, anche se non sempre in modo intenzionale, a volte contro la nostra volontà; parla con il suo ondeggiare e anche con le sue pause, ospita i nostri pensieri e il sentire con cui ci poniamo nel mondo. D’altro canto, raccoglie e rappresenta la lettura che ne fa il contesto. Allora, quanto di ciò che i nostri corpi mostrano è designato dalla nostra coscienza di “io” e quanto dal valore che “l’altro” imprime? Attraverso questo corpo ci posizioniamo nelle relazioni, negli spazi in cui siamo coinvolti; siamo un corpo che fornisce la sua immagine all’esterno, ma che raccoglie da esso parte della sua disposizione e sistemazione.

COSA MI DICE IL MIO CORPO DI ME IN RELAZIONE CON IL MONDO?

Cosa dice questo mio corpo ai miei consultanti, ai gruppi a cui appartengo, ai quali non appartengo. Non posso fare a meno di pensare a quanto sia importante come terapeuta tenere conto di questa multidimensionalità del corpo, del proprio e di quello che abbiamo di fronte; fino a che punto il modo in cui organizziamo le esperienze della nostra esistenza è determinato dalla costruzione che il contesto fa di noi e viceversa. Come dice Alemany, che posto occupa il linguaggio per riferirsi a quel processo fisicamente sentito e psichicamente significativo, che cosa costituisce l’esperienza, che posto occupano le costruzioni sociali rispetto al desiderabile e all’indesiderabile.

E ALLORA, COME GIOCA IL CORPO NELL’ESSERE TERAPEUTA?

Quando penso ad Arturo, mi chiedo come posso situarmi in un corpo che non è il mio, cioè di un sesso biologicamente diverso, inquadrato in una concezione dell’essere uomo diverso da quella di essere donna, con una storia e un’esperienza che non è mia. Mi rendo conto dei luoghi molto diversi che occupano i nostri corpi, anche pensando al contesto specifico del mio paese, il Messico, dove i femminicidi hanno superato qualsiasi immagine di finzione terroristica, dove donne e uomini sono colpiti da un maschilismo tenace e spietato, ma anche dove il razzismo e il classismo sono il male incarnato nella normalizzazione. Come penso a questo corpo che ho di fronte, un corpo non privilegiato dalla mia cultura; come la penso io, da un corpo che gode di certi privilegi nello stesso contesto, privilegi governati di alcune idee dominanti di bellezza. Non posso non pensare al modo in cui la società, la cultura, la religione, le esperienze soggettive, evidenziano, nel bene e nel male, alcuni ambiti del corpo, tenendone lontane altre; ne permettono alcune espressioni, limitandone e respingendone altre; pregiudizi e stereotipi sono sempre presenti.

COME SUPERARE QUESTE BARRIERE CHE DELIMITANO NATURALMENTE QUELL’ALTRO MIO CORPO E, IN MODO COSTRUITO, APPRESO, TRASMESSO, LO FANNO DIVENTARE UN ALTRO SCONOSCIUTO DAVANTI AI MIEI OCCHI?

Penso che uno dei pilastri che compongono questo ponte tra me e l’altro sia l’affettività. Le emozioni ci incorniciano come individui, ci sostengono nella nostra relazione con noi stessi e ci connettono con l’altro. L’auto-percezione di quest’aspetto del nostro essere è fondamentale per acquisire consapevolezza della posizione che ricopriamo, nella società, nella cultura in cui siamo inseriti, nella famiglia a cui apparteniamo, nelle relazioni che creiamo. Che tipo di privilegi e non privilegi ci conferiscono gli stereotipi sul nostro corpo, ai nostri consulenti sul loro; che tipo di aggettivi vengono usati per definirli, per viverli e sperimentarli in un modo o in un altro. Quanto il nostro modo di vestire, il nostro taglio di capelli, i nostri ornamenti, ma anche il colore della nostra pelle, il nostro genere, il nostro orientamento sessuale, spogliano i nostri modelli socio-culturali e quelli degli altri; che posto viene assegnato al piacere e al sapere, come in tutto questo il nostro corpo viene valutato, trattato e rappresentato.

Mi chiedo anche quanto della dimensione psicologica e spirituale del corpo sia silenziata dal vortice di stimoli sensoriali che il mondo oggi ci offre ai fini del benessere. Le sensazioni corporee sono la forza iniziale per accedere consapevolmente agli affetti, ma quando siamo così sovra-stimolati, quotidianamente, dagli stimoli che il mondo ci fornisce, diventa come un rumore ingannevole, che sembra agevolare la nostra vita ma molto probabilmente non ci permette di connetterci con la parte non fisica del nostro corpo.

Queste mi sembrano riflessioni essenziali al mio essere terapeuta, riflessioni che hanno un percorso di andata e ritorno, da me ai miei clienti, da loro a me, da me a me stessa, da me stessa al mio essere terapeuta.

E TU, COME VIVI IL TUO CORPO IN RELAZIONE AGLI ALTRI, COME VIVI IL CORPO DEGLI ALTRI IN RELAZIONE AL TUO, AL TUO CONTESTO, ALLE TUE ESPERIENZE; QUALI ELEMENTI CONTRIBUISCONO ALLE TUE DEFINIZIONI?

 

Victoria Cervantes

FONTI
De Castro, A. M. e Gómez Peña, A. M. (2011). Corporalidad en el contexto de la psicoterapia.
Psicología desde el Caribe, 27 (enero-junio), 223-252. Universidad del Norte,
Barranquilla, Colombia.
Alemany, C. e García, V. (1997). El cuerpo vivenciado y analizado.Ed. Desclpe
de Brouwer, Bilbao.

INTERVISTA VIRALE

Partendo da questa riflessione abbiamo deciso di invitare Andrea Anaya, Terapeuta Sistemica e docente a Città del Messico, per un dialogo.

Buona Visione!

IL CORPO É DIALOGO

“Il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo.

Io sono come mi vedo, un campo intersoggettivo, non malgrado il mio corpo e la mia storia, ma perché io sono questo corpo e questa situazione storica per mezzo di essi.”

Maurice Merleau-Ponty

IL CORPO É DIALOGO

Riflessioni sul corpo da parte di una psicologa/educatrice, studentessa della scuola.

OGGI SONO A SCUOLA, SONO IN AULA, SULLA MIA SEDIA. MI GUARDO INTORNO CI SONO I GIOCHI, I DISEGNI DEI BAMBINI, LE LORO FOTO…
TUTTO INTORNO A ME RACCONTA QUALCOSA.
CI SONO ANCHE I BAMBINI CHE COME SEMPRE SONO INTENTI E INDAFFARATI CON QUALCHE GIOCO. NON STANNO PARLANDO CON ME, IO SONO IN SILENZIO E LI STO OSSERVANDO EPPURE MI SEMBRA CHE MI DICANO QUALCOSA.

Siamo spesso portati a pensare che il modo che abbiamo per comunicare sia connesso alla nostra capacità di elaborare un linguaggio, che sia iconografico o orale, l’importante è che questo produca intenzionalmente un artefatto che ci arrivi e che venga percepito e classificato. Basta pensare al mondo dei social o del marketing, che vivono di questo principio e usano le immagini e le parole per comunicare qualcosa con uno scopo.
Eppure sono convinta che la nostra capacità di comunicare non sia connessa esclusivamente a un’intenzionalità e un’abilità di elaborazione, ma che abbia origine da prima. Da noi stessi. Il nostro corpo non è solo un contenitore che percepisce informazioni, le elabora e genera una risposta secondo un obiettivo.
Come sostiene Ugo Volli, semiologo e accademico italiano, ridurre il corpo ad una macchina materiale e cognitiva, senza tener conto del suo aspetto soggettivo, ci fa perdere la ricchezza che esso può portare.

Quante volte ci capita di riconoscere lo stato di persona? Malata o soltanto stanca, oppure contenta o arrabbiata. Quante volte semplicemente osservare una persona ci porta ad avvicinarci o allontanarci da essa; quanto questo influenza il nostro entrare in relazione. Pare che alcune volte la presenza stessa di una persona con un corpo e con i messaggi che questo corpo manda sia abbastanza per comunicare.

È INTENZIONALE TUTTO CIÒ? E SE NON LO FOSSE COME MAI SUCCEDE?

Penso che per rispondere a queste domande sia necessario partire definendo il concetto di CORPO.
Gli studi recenti, che analizzano il ruolo del corpo all’interno dei processi, affermano che esso non può essere più considerato separato nelle sue due componenti corpo e mente. Le due sono estremamente connesse l’una all’altra, interdipendenti e si influenzano.
In quest’ottica l’embodiment, che nasce dall’unione degli studi cognitivi a quelli neuroscientifici, ha come obiettivo la creazione di un nuovo approccio che unisca la soggettività alla corporeità. Secondo questa prospettiva ogni processo cognitivo dipende dall’elaborazione dell’esperienza corporea, ma allo stesso tempo presta attenzione alle caratteristiche specifiche della corporeità e all’ambiente nella quale agisce. Riqualifica e inserisce, quindi, nei processi cognitivi due elementi: la corporeità, che passa dall’avere un ruolo passivo a uno attivo, e l’ambiente, non circoscrivendo più il processo solamente all’individualità.
Qui si può trovare una forte connessione con gli studi di Maurice Merleau-Ponty che avevano l’intento di superare il dualismo tra anima e corpo, soggetto e oggetto.
Partendo dagli studi sull’espressioni verbali, l’autore riflette sulle componenti stesse del corpo ed evidenzia come, inserendo il fenomeno linguistico all’interno della riflessione stessa, sia possibile far emergere la centralità della corporeità all’interno del processo. Questo significa che secondo l’autore un soggetto parlante, non solo verbalmente ma considerando tutte le modalità del linguaggio, non possiede solo una facoltà automatica di linguaggio ma anche “un certo modo di farne uso”. È quindi presente una coscienza situazionale che consente alla corporeità, attraverso la propria motilità, di dare un senso.

Siamo spesso portati a pensare che il modo che abbiamo per comunicare sia connesso alla nostra capacità di elaborare un linguaggio, che sia iconografico o orale, l’importante è che questo produca intenzionalmente un artefatto che ci arrivi e che venga percepito e classificato. Basta pensare al mondo dei social o del marketing, che vivono di questo principio e usano le immagini e le parole per comunicare qualcosa con uno scopo.
Eppure sono convinta che la nostra capacità di comunicare non sia connessa esclusivamente a un’intenzionalità e un’abilità di elaborazione, ma che abbia origine da prima. Da noi stessi. Il nostro corpo non è solo un contenitore che percepisce informazioni, le elabora e genera una risposta secondo un obiettivo.
Come sostiene Ugo Volli, semiologo e accademico italiano, ridurre il corpo ad una macchina materiale e cognitiva, senza tener conto del suo aspetto soggettivo, ci fa perdere la ricchezza che esso può portare.

“La coscienza si proietta in un mondo fisico e ha un corpo, così come si proietta in un mondo culturale e ha degli habitus

Merleau-Ponty

Riprendendo quindi questa visuale, è possibile sostenere che corpo e mente sono una cosa sola e che sono l’uno specchio dell’altra. Il nostro stato interiore emerge anche all’esterno ed emergendo ci permette di situarci in un contesto. Il nostro corpo quindi, in quanto corpo fisico, ci presenta, ci dà una definizione e ci permette di entrare in dialogo con gli altri.

STO PENSANDO A TUTTO CIÒ CHE CI DEFINISCE COME CORPO.
UN TAGLIO DI CAPELLI, UNA TIPOLOGIA DI TRUCCO, UN VESTITO, UNA POSTURA …
E A CIÒ CHE SIAMO COME MENTE.
LA NOSTRA IDEA DI LAVORO, IL NOSTRO ORIENTAMENTO SESSUALE E DI GENERE, I NOSTRI VALORI, I NOSTRI PREGIUDIZI, …
QUANTO CIÒ CHE È CORPO E STRETTAMENTE CONNESSO A CIÒ CHE È MENTE, E AL CONTRARIO QUANTO CIÒ CHE È MENTE È CONNESSO A CIÒ CHE È CORPO?

Come sostengono gli autori prima citati non si può parlare di dualità, distinguendoli come due entità separate, ma esse insieme con le loro peculiarità costituiscono un uno.

Mi ripenso ora in quella classe, con quei bambini e comprendo perché, sebbene non fosse agito tramite delle parole, comunque in quel momento stavamo comunicando. Il dialogo tra le persone non è costituito solo da parole ma anche da azioni. Come avviene nella danza anche nella vita di tutti i giorni i corpi che entrano in relazione si trovano a dialogare tra loro, movendosi in uno spazio e rispettando, e a volte anche trasgredendo, delle regole.
Questo tipo di comunicazione non è meno importante di una altra, semplicemente avviene in un altro modo e come psicologa e educatrice penso sia indispensabile ricordarselo quando si entra a scuola.

Paolo Bertrando, nel video postato qualche giorno fa, sottolinea l’importanza di avere una posizione dialogica rispetto al corpo. Il corpo, proprio o degli altri, non è presente e basta. Come afferma Le Boulch:

«Nell’esperienza non esiste un corpo oggettivo, il corpo è sempre soggettivo. Il corpo-oggetto è una pura astrazione mentale, ciò che esiste è un corpo vissuto, un corpo in relazione. Ascoltare il corpo è sempre e comunque anche ascoltare l’anima».

È necessario, allora, mettersi in posizione d’ascolto cercando di capire e comprendere, leggere ciò che viene espresso e provare a portarlo dentro la propria professione. Questa posizione dialogica ci può aiutare a comprendere l’altro, le sue emozioni, i suoi desideri nel modo in cui egli stesso decide di comunicarcelo attraverso la sua corporeità.
Penso infine, che sia partendo da queste riflessioni portate dal modello sistemico-dialogico, che un educatore o un insegnante debba improntare la propria relazione educativa e didattica. Ponendo sé stesso e i propri alunni al centro, rispettando quello che le loro corporeità esprimono e leggendo il dialogo che avviene tra loro, penso si possa realizzare un progetto educativo che davvero si basi sulle necessità di crescita dei bambini e dei ragazzi. Gli studenti stessi presentandoci il loro corpo ci narrano della loro storia, ci fanno entrare nel loro presente e ci portano anche nel passato, nelle loro origini.
Questa prospettiva, senza riferimenti standard generici dati da griglie valutative confezionate a puntino e poco flessibili, ci permetterebbe di vedere realmente chi abbiamo di fronte.

VOI CHE IDEA AVETE DI CORPO? E COME LO LEGGETE NEL VOSTRO CONTESTO LAVORATIVO?

 

Ginevra Osimani

FONTI

Frattaroli, F., Corpo della parola, corpo del senso: espressione e pensiero in M. Merleau-Ponty, Studi di estetica, anno XLV, IV serie, 2/2017 Sensibilia.

Merleau-Ponty, M., Fenomenologia della percezione (1945), a cura di A. Bo-nomi, Milano, Bompiani, 2012.

Volli, U., Il corpo della danza, Osiride, 2019.

TAVOLA ROTONDA: Il corpo è Dialogo

Tavola rotonda nata dall’articolo “il corpo è dialogo” scritto da una studentessa della nostra scuola: Ginevra Osimani .

“VOI CHE IDEA AVETE DI CORPO? E COME LO LEGGETE NEL VOSTRO CONTESTO LAVORATIVO?”

Abbiamo invitato per regalarci il loro punto di vista

Angela Giordano – Casting director
Jan Tononi – Studente di pittura
Maria Lisa Vantini – Psicomotricista in formazione
Valentina Spada – Medico e Psicoterapeuta in formazione

e voi? cosa ne pensate?