Come posso descrivere la psicoterapia in termini formali? È questione complessa. Ogni manuale per futuri terapeuti se ne occupa, con risultati più o meno convincenti, sempre e comunque diversissimi l’uno dall’altro. Cercherò di aggiungere anche la mia definizione: è, naturalmente, provvisoria (e sarà necessario rivederla più d’una volta), ma devo tracciarla comunque.
Qual è la differenza, innanzitutto, tra un dialogo terapeutico e una conversazione da bar? In prima approssimazione, la cornice della terapia è la definizione stessa della relazione terapeutica: una terapia è terapia perché è definita da una relazione in cui sono sospese le regole delle relazioni “quotidiane”: le regole diventano quelle di un setting più o meno strutturato, per esempio, attraverso tecniche come le domande circolari e i reframing sistemici, oppure la “regola fondamentale” della psicoanalisi classica. Quello che rende terapia la
terapia è proprio questo specificare un dialogo non quotidiano. Un paradosso: tanto che la cornice terapeutica è un esempio più volte usato da Gregory Bateson per il suo discorso generale su contesti e cornici (Bateson, 1954; Zoletto, 2003).
Prima di tutto, allora, la psicoterapia può essere definita come una serie d’interazioni incorniciate dal messaggio “Questa è psicoterapia”. In altri termini, quando due (o più) persone concordano che quel che stanno facendo è psicoterapia, allora stanno facendo psicoterapia. Il messaggio “Questa è psicoterapia” è costitutivo della psicoterapia: è notoriamente difficile creare
placebo psicoterapeutici, e quelli che sono stati proposti tendono a essere fin troppo vicini a psicoterapie vere e proprie (si veda Snyder, Michael e Cheavens, 1999). Così, l’affermazione “Questa è psicoterapia” genera la psicoterapia, proprio come lo sgabello usato come piedistallo negli oggetti ready made di Marcel Duchamp trasformava una ruota di bicicletta in un’opera d’arte.
Una terapia non incorniciata come tale è di per sé problematica. Proverò a fare un esempio. Arriva un mattino nel mio studio (annunciato) un signore di una quarantina d’anni, manager, inviato da altro manager mio paziente. Lo saluto, mi saluta. Poi comincia: “Sono venuto da lei su suggerimento del signor… per avvalermi delle sue capacità professionali”, e prosegue per minuti e minuti,
inanellando dettagli della sua vita lavorativa, mostrandosi insoddisfatto ma dinamico, deluso dalla sua posizione attuale ma voglioso di fare. Molto coinvolto, a suo modo. Eppure c’è qualcosa che non va. Sento un crescente disagio, come se non sapessi più bene chi sono. Alla fine capisco: l’amico lo aveva indirizzato a uno psicoterapeuta e a un consulente del lavoro, e lui mi aveva scambiato per quest’ultimo. Quindi doveva mostrarsi propositivo, voglioso, interessato. Tralascio le interessanti inferenze terapeutiche che possono essere suggerite dal caso. L’importante è l’effetto su di me: smarrimento e perdita di senso,
perché il modo stesso di parlare, di disporsi nei miei confronti, non era compatibile con la cornice terapeutica, e lui medesimo, una volta capito l’equivoco, ebbe qualche difficoltà a cambiare registro.
Paolo Bertrando
Da: Il terapeuta dialogico