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DIALOGO LGBT+ IN MOVIMENTO

Siamo Liza e Victoria due terapeute messicane che fanno parte della comunità, la prima residente in Messico e la seconda in Italia. Lo scorso giugno abbiamo avuto l’opportunità di assistere allo sviluppo del mese dell’orgoglio LGBT+ in due paesi diversi, Italia e Spagna e, per molti anni, anche in Messico.

Abbiamo deciso di scrivere questo testo a seguito delle conversazioni avviate sulla quantità di contrasti che abbiamo percepito muovendoci in questi tre contesti ed abbiamo sentito il bisogno di aprire questo dialogo. Aprire il dialogo significa per noi rendere pubblico ancora e ancora ciò che tende a rimanere privato e che, durante i due anni della pandemia globale, si è ulteriormente esacerbato. Marciare nuovamente è stato importante per noi perché siamo testimonƏ del fatto che quando il dialogo si svolge in pubblico, acquista più forza di quando si svolge tra quattro mura.

Negli ultimi 50 anni e a partire dalla rivolta di Stonewall, che è stato l’evento catalizzatore affinché la comunità LGBT+ si organizzasse per lottare per i propri diritti, a fine giugno – il 28 o una data vicina – si commemora la Giornata dell’Orgoglio almeno in un posto al mondo.

In un paese su tre l’essere omosessuale è vietato, mentre in 12 paesi è punito con la pena di morte. Il matrimonio egualitario è legale solo in 30 paesi e fra questi non vi è l’Italia.

Il Messico è il secondo paese in America Latina con il maggior numero di violenze omofobiche e transfobiche. La Spagna, sebbene sia uno dei paesi leader in Europa in termini di tutela dei diritti umani, è lo scenario di numerose aggressioni omofobiche che avvengono in spazi pubblici.

Anche se attualmente in Italia, Spagna e Messico si marcia ogni anno in occasione del Pride, la prima marcia in Spagna si è svolta nel 1977, in Messico nel 1979 e in Italia nel 1994. Questo è un fatto importante per noi sotto molti aspetti e uno di questi è la rilevanza che i diritti della comunità hanno raggiunto, per ragioni diverse, in ognuno di questi contesti.

Per noi, vivere la marcia quest’anno ha rappresentato uno spazio di discussione e riflessione, sia a livello personale che collettivo.

Io, Liza, donna cis, messicana, bianca, lesbica.

Io, Victoria, donna cis, messicana, meticcia, immigrata, bisessuale.

Marciamo perché siamo vive per farlo, grazie alla lotta che altrƏ hanno portato avanti, perché anche se non ci sentiamo ancora completamente al sicuro nello spazio pubblico per amare chi vogliamo, viviamo in paesi in cui non è illegale farlo. Marciamo perché non abbiamo mai avuto o sentito il bisogno di fare coming out, ma sappiamo che è un privilegio farlo, perché veniamo da famiglie che a volte abbracciano e a volte rifiutano.

Marciamo perché abbiamo lo stesso diritto ad amare delle persone etero, perché l’orgoglio è pubblico, è collettivo, è la libertà del potere, è la celebrazione di ciò che è stato raggiunto e la lotta per ciò che deve ancora venire. È una forma di resistenza, di visibilità, di insistere nell’amare a letto come nelle strade. Perché anche il piacere, l’amore, la lotta, il corpo, le strade e l’esistenza ci appartengono.

Perché la marcia diventa uno spazio fisico che accoglie la lotta non solo di un giorno o un mese intero. Perché le conquiste della comunità LGBT+ si intrecciano con i trionfi e le fatiche dei Movimenti Verdi e Viola, perché i movimenti femministi hanno aperto la discussione sul tema della sessualità, del genere e della politica ed è attraverso “il personale è politico” che tutte le individualità possono trovare un alveo comune.

Perché parlare di diritti umani deve aprire il dialogo su tutto ciò che storicamente è stato evitato, per motivi morali e religiosi, mantenendo i discorsi nel privato o nell’oblio. Perché partiamo dal presupposto che la nostra esperienza personale di attivismo può generare movimento e cambiamento solo se viene collettivizzata.

Marciamo e alziamo la voce perché siamo anche terapeute e situarsi in questo spazio, personale e professionale, è stato – e continua ad essere – un apprendimento di preparazione teorica, fisica, psicologica ed emotiva. Perché non siamo fatte di fede ma di speranza, perché ci piace stare dentro l’uragano e non siamo nella posizione di essere indifferenti. Provocare movimento e metterci in discussione nel nostro contesto, insieme ai nostri gruppi di appartenenza e insieme a i nostrƏ clientƏ, è una necessità e un impegno.

Non concepiamo un lavoro terapeutico che non tenga conto dell’intersezione delle lotte per i diritti umani, che non metta in discussione le idee della psicologia tradizionale, che fino al 1973 considerava l’omosessualità come un disturbo e continua a considerare la disforia di genere come tale. Perché facciamo parte dei sistemi istituzionali – compreso il sistema sanitario – che continuano a discriminare i membri della comunità, attraverso la negazione delle cure mediche, il divieto di donare il sangue, la discriminazione nell’accesso al lavoro e all’istruzione, oltre a molte altre forme di violenza. Perché molti operatori sanitari – compresƏ i psicologƏ – continuano a lavorare per correggere e non per capire e accompagnare.

Scriviamo questo articolo per celebrare ciò che è stato raggiunto e per invitare al dialogo su ciò che ancora manca. Il confronto tra le nostre esperienze in tre paesi diversi ci ricorda quanto siamo fortunate a provenire da un paese in cui il matrimonio LGBT+ non è ancora legale a livello nazionale, ma dove possiamo scegliere di sposare chi vogliamo. Tuttavia, la libertà e la sicurezza che abbiamo provato marciando in Spagna ci fanno desiderare di poterci sentire allo stesso modo camminando per le vie del Messico. Da parte sua, il Modello Dialogico è stato in Italia uno spazio per essere irriverenti, per essere curiose, per situarci.

Perché la lotta collettiva si svolge nelle strade, ma anche nei nostri studi, mettendo in dialogo ciò che non viene nominato, ciò che è stato messo a tacere, ciò che a volte non vediamo nemmeno noi; si tratta di intessere e disfare assieme, delle conversazioni che commuovono e trasformano. Si tratta del fatto che il professionale è anche personale e il personale è sempre politico.

Liza Pérez-Moreno Rosa

Victoria Cervantes Camacho

CHE COSA E’ UNA RELAZIONE TERAPEUTICA?

CHE COS’ É UNA RELAZIONE TERAPEUTICA?

5 Giugno 2021

Come posso descrivere la psicoterapia in termini formali? È questione complessa. Ogni manuale per futuri terapeuti se ne occupa, con risultati più o meno convincenti, sempre e comunque diversissimi l’uno dall’altro. Cercherò di aggiungere anche la mia definizione: è, naturalmente, provvisoria (e sarà necessario rivederla più d’una volta), ma devo tracciarla comunque.

Qual è la differenza, innanzitutto, tra un dialogo terapeutico e una conversazione da bar? In prima approssimazione, la cornice della terapia è la definizione stessa della relazione terapeutica: una terapia è terapia perché è definita da una relazione in cui sono sospese le regole delle relazioni “quotidiane”: le regole diventano quelle di un setting più o meno strutturato, per esempio, attraverso tecniche come le domande circolari e i reframing sistemici, oppure la “regola fondamentale” della psicoanalisi classica. Quello che rende terapia la
terapia è proprio questo specificare un dialogo non quotidiano. Un paradosso: tanto che la cornice terapeutica è un esempio più volte usato da Gregory Bateson per il suo discorso generale su contesti e cornici (Bateson, 1954; Zoletto, 2003).

Prima di tutto, allora, la psicoterapia può essere definita come una serie d’interazioni incorniciate dal messaggio “Questa è psicoterapia”. In altri termini, quando due (o più) persone concordano che quel che stanno facendo è psicoterapia, allora stanno facendo psicoterapia. Il messaggio “Questa è psicoterapia” è costitutivo della psicoterapia: è notoriamente difficile creare
placebo psicoterapeutici, e quelli che sono stati proposti tendono a essere fin troppo vicini a psicoterapie vere e proprie (si veda Snyder, Michael e Cheavens, 1999). Così, l’affermazione “Questa è psicoterapia” genera la psicoterapia, proprio come lo sgabello usato come piedistallo negli oggetti ready made di Marcel Duchamp trasformava una ruota di bicicletta in un’opera d’arte.

Una terapia non incorniciata come tale è di per sé problematica. Proverò a fare un esempio. Arriva un mattino nel mio studio (annunciato) un signore di una quarantina d’anni, manager, inviato da altro manager mio paziente. Lo saluto, mi saluta. Poi comincia: “Sono venuto da lei su suggerimento del signor… per avvalermi delle sue capacità professionali”, e prosegue per minuti e minuti,
inanellando dettagli della sua vita lavorativa, mostrandosi insoddisfatto ma dinamico, deluso dalla sua posizione attuale ma voglioso di fare. Molto coinvolto, a suo modo. Eppure c’è qualcosa che non va. Sento un crescente disagio, come se non sapessi più bene chi sono. Alla fine capisco: l’amico lo aveva indirizzato a uno psicoterapeuta e a un consulente del lavoro, e lui mi aveva scambiato per quest’ultimo. Quindi doveva mostrarsi propositivo, voglioso, interessato. Tralascio le interessanti inferenze terapeutiche che possono essere suggerite dal caso. L’importante è l’effetto su di me: smarrimento e perdita di senso,
perché il modo stesso di parlare, di disporsi nei miei confronti, non era compatibile con la cornice terapeutica, e lui medesimo, una volta capito l’equivoco, ebbe qualche difficoltà a cambiare registro.

Paolo Bertrando
Da: Il terapeuta dialogico

Workshop 2021 : “Le parole sono importanti”

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

WORKSHOP 2021

“I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”

Ludwig Wittgenstein

Eccoci al termine della sesta edizione dell’evento dell’anno rivolto a tutti gli allievi della Scuola Sistemico-Dialogica di Bergamo. Si tratta dell’abituale workshop che si sviluppa nell’arco di tre giornate e che vede il susseguirsi di numerosi professionisti, non appartenenti al mondo della psicologia, a cui si chiede di approfondire uno specifico tema dalla propria prospettiva. Entrando più nel dettaglio, il workshop 2021 ha scelto di fare un affondo sull’importanza delle parole, spesso date per scontate ed utilizzate senza pensarvi troppo. I diversi relatori, con le loro testimonianze ed attraverso un dialogo costante con i presenti, hanno ben evidenziato come le parole riescano a colpire, avvolgere ed escludere.

Esistono diversi modi di esprimere se stessi e di comunicare con l’altro, ricorrendo a canali e codici differenti che hanno specifiche regole di utilizzo e che evolvono nel tempo e con il contesto socio-culturale. Nonostante tali differenze si può osservare come in tutti i processi comunicativi venga trasmesso un pensiero, un’idea e, nello stesso tempo, inevitabilmente un’emozione.

Ciò ben si nota, non solo nel mondo psico, ma anche all’interno di diversi ambiti professionali, tra cui quelli dell’arte, della pubblicità, della vendita, della comunicazione e della musica bene rappresentati durante il workshop.

La scelta delle parole nella vita quotidiana è importante ma lo è ancor di più nel processo dialogico che avviane nella stanza di terapia, poichè tale scelta guida il processo relazionale, creando un ponte tra storie e narrazioni differenti. La creatività del processo terapeutico sta proprio nella co-costruzione di nuovi significati che permettono di rileggere il contesto da una prospettiva nuova, né giusta nè sbagliata, ma semplicemente differente. Gregory Bateson affermava che “il pensiero creativo deve avere sempre una componente di casualità” e per l’approccio Sistemico-Dialogico la causalità sta nell’incontro con le persone, con loro personalità e le loro caratteristiche.

In questi tre giorni di workshop e di stop da una routine quotidiana frenetica e in continuo movimento abbiamo avuto l’opportunità di incontrare professionalità altre, stimoli nuovi, facendo un vero e proprio esercizio di bellezza. Come avviene nella stanza di terapia, stare fermi, in ascolto, nel rispetto dei tempi altrui ci permette di osservare, con curiosità, qualche cosa di nuovo e di bello spesso, dato per scontato o abbandonato. Un po’ come uno specchio che riflette l’immagine, il nostro modello mette l’accento sull’importanza di prendersi del tempo e di ascoltare le proprie ed altrui emozioni. Non ci resta quindi che ringraziare i relatori che in queste giornate ci hanno offerto spunti per importanti riflessioni: Sandro Scarrocchia (Docente di storia dell’arte-Brera), Paolo Baraldi (Artista-HG80), Claudia Torresani (Copywriter), Marco Parisio (agente di commercio), Gaspare Caliri (Semiologo), Riccardo Bertrando (youtuber), Pietro Baracchetti (giornalista), Kick (gruppo musicale), Davide Hofmann (artista musicale) e Michele dal Lago (sociologo).

Alice Gaudenzi e Ilaria Mariani

HOMO DEUS: a brief history of tomorrow

(Edizione italiana: Homo Deus: Breve storia del futuro. Milano: Bompiani)

HOMO DEUS

A Brief history of tomorrow

A un anno dall’inizio della pandemia da COVID- 19 che ha investito le nostre vite trasformandole come nient’altro è stato in grado di fare prima in un così breve lasso di tempo, abbiamo pensato di proporre per le nostre #INFILTRAZIONI questo testo dello storico israeliano Yuval Noah Harari.

PERCHÉ?

Nel 2015 Harari tentava di indurci ad una riflessione sul nostro FUTURO partendo da una presa di consapevolezza di quelle che erano le premesse che ci siamo costruiti nell’arco di molti secoli. Questo libro, che è il seguito di un altro Best seller, “Homo Sapiens”, parte dal tentativo di renderci consapevoli per immaginare quali scenari si prospettano per il FUTURO DELL’UMANITÀ.

Cosa che a noi richiama due questioni molto importanti, ovvero : DOVE SIAMO E DOVE STIAMO ANDANDO? E dunque: COME VOGLIAMO SITUARCI RISPETTO AL NOSTRO FUTURO?

Secondo l’autore Homo Sapiens è riuscito ad elevarsi rispetto alle altre specie animali e conquistare il mondo grazie alla sua capacità di tessere una rete intersoggettiva di significati. Sembra, tuttavia, che questo non sia bastato e non ci basti, dobbiamo bramare la conquista di altro. Cosa? e perché?

Per rispondere a queste domande l’autore ripercorre alcuni passaggi della storia evolutiva dell’umanità, che portano fuori in modo chiaro e disarmante un costante processo che, forse, per troppo tempo abbiamo trascurato.

L’essere umano è costantemente impegnato nel tentativo di vincere la morte, è alla continua ricerca della felicità, di nuove scoperte per migliorare la propria vita,  di continui successi da raggiungere e potere da conquistare. Perché non siamo in grado di fermarci? Harari esplicita quali opportunità e risorse ha portato tale atteggiamento umano, ma vuole anche invitarci a riflettere su quali possibili rischi stiamo correndo.

L’autore spiega come la Rivoluzione Agricola ha permesso l’espansione delle religioni teiste mentre la Rivoluzione Scientifica ha permesso la nascita delle religioni umaniste, in cui gli umani hanno intrapreso la scalata verso la condizione divina. Le religioni teiste permettevano all’’umanità di dare senso e significato al mondo chiedendole di rinunciare al potere che era divino. Nell’ epoca moderna l’umanità stringe un nuovo patto tramite il quale ottiene più potere “rinunciando alla fede in un grandioso piano cosmico che da senso al mondo”. Ottenere l’immortalità, l’eterna felicità e il potere divino è l’obiettivo dell’umanesimo liberale che “ha a lungo sacralizzato la vita e le emozioni degli esseri umani”. Harari ci dimostra come il tentativo di perseguire tali obiettivi nasconda in sé il pericolo di minare la stessa ideologia liberale ponendoci le seguenti domande: “Che cosa accadrà, allora, quando comprenderemo che i consumatori e gli elettori non compiono mai libere scelte, e quando avremo a disposizione la tecnologia necessaria per calcolare, progettare e vincere in astuzia i loro sentimenti? Se l’intero universo è appeso all’esperienza umana, che cosa accadrà quando l’esperienza umana diventerà solo uno dei tanti prodotti da progettare, senza alcuna differenza essenziale rispetto a qualsiasi altra merce sugli scaffali di un supermercato?”.

Muovendo dalle riflessioni dell’autore, ci siamo chieste come tradurle in un linguaggio sistemico che potesse aprirne di nuove.

Due sono le vie che abbiamo cercato di intraprendere: la prima è che tutto ciò ci riporta il pensiero ad un concetto che G. Bateson ha introdotto circa ottant’anni fa a seguito dei suoi studi in Nuova Guinea. La schismogenesi simmetrica. Senza entrare nel dettaglio di questo concetto, tanto caro e conosciuto dai Sistemici e per il quale rimandiamo il lettore alla teoria originale, ciò che ci sembra rilevante in questo contesto è che il concetto di schismogenesi richiama processi di cambiamento incontrollato. Ovvero processi di crescita che si rinforzano a vicenda e che, primo o poi, portano al collasso a meno che, come sottolinea Bateson, una “terza istanza” non subentri nel processo e modifichi le relazioni in atto. Il libro che abbiamo letto e vi invitiamo a leggere sembra portare fuori questo processo in maniera lucida e provocatoria.

Seguendo questo ragionamento arriviamo alla seconda questione, quale può essere per noi questa “terza istanza” di cui parla Bateson?

Forse potremmo ipotizzare che sarebbe utile aprire una riflessione sul dubbio: se invece che essere alla continua ricerca di spiegazioni che ci portino ad un qualche tipo di certezza su ciò che stiamo attraversando iniziassimo a porci delle domande, cosa succederebbe? Se cercassimo di abbandonare una visione deterministica e abbracciassimo una prospettiva “incerta”?

Il momento che stiamo attraversando ci facilita il compito. Dal marzo 2020 siamo stati tutti chiamati a sperimentare questo tipo di condizione “grazie” all’avvento della pandemia da COVID-19. Come questo si è riflesso sulle nostre vite e sul nostro modo di pensare al passato, al presente ma soprattutto al futuro?

Sicuramente non è stato facile pensare e comportarsi secondo modalità nuove e mai sperimentate, poiché i nostri pensieri e le nostre azioni sono vincolati alle ideologie e ai sistemi sociali contemporanei, nonché alla cultura e ai contesti in cui siamo immersi. Questo tradotto in linguaggio sistemico significa diventare consapevoli delle proprie premesse e dei propri pregiudizi cercando di trasformare i vincoli a cui siamo soggetti in possibilità. In ottica sistemico-dialogica ci permettiamo di fare un passaggio ulteriore: ci sembra che tutto ciò ci stia dando un invito ad accogliere la complessità non come qualcosa in cui mettere ordine e che ci spaventa ma come apertura di scenari possibili e creativi.

In conclusione Harari ci aiuta in questo processo riformulando sotto forma di domanda tre processi interconnessi cui dobbiamo volgere lo sguardo per guardare al nostro futuro in modo lungimirante e creativo.

Non vogliamo rovinarvi la sorpresa 😉

Valentina Crimella e Marina Gabrieli

HYURO: COLORI PALLIDI PER STORIE FORTI

COLORI PALLIDI

PER STORIE FORTI

Hyuro

“Silenzio … i muri hanno ancora molto da dire”

Escif

Cosi afferma Escif, il famoso artista di graffiti spagnolo, su Hyuro.
Tamara Djurovic, conosciuta nel mondo dei plastici e dei graffiti come Hyuro, è stata un’artista argentina stabilitasi in Spagna nel 2005 e scomparsa il 19 novembre 2020 a causa di una malattia.

Ha sviluppato i suoi progetti in Argentina, Brasile, Messico, Stati Uniti, Marocco e Tunisia; così come in gran parte dell’Europa. Dalla Spagna, sebbene abbia viaggiato per tutta la penisola, è a Valencia che ha sviluppato la parte più importante della sua carriera.

Donne invisibilizzate , persone che lottano quotidianamente, promesse e sogni rotti, oggetti ordinari, emozioni sincere, scintille di vita nei labirinti urbani. Hyuro usa colori tenui, quasi pallidi che catturano la delicatezza dei suoi soggetti dipinti. Disegna abiti, situazioni, oggetti che rievocano momenti- tempi o addirittura secoli – in cuiledonne erano percepite solo come casalinghe. Ecco perché le disegna senza volti, prestando particolare attenzione ai dettagli dei loro corpi. Tuttavia, al di là di qualsiasi critica specifica di genere, Hyuro esplora non solo le complessità degli esseri umani, ma si concentra anche sulle loro esperienze personali e sulle emozioni pure e difficili.

Il giorno della sua partenza Escif scrisse: «Il lavoro di Hyuro è stato un lavoro intimo e molto personale. Il suo universo è inquietante e seducente. Il suo linguaggio è sincero e vicino. La sua testa erano le sue mani e la sua pittura un regalo per le strade della città. I suoi murales si distinguono per la forza innata riflessa da quelle donne, a volte senza volto, che lottano quotidianamente per andare avanti. Donne combattenti che compongono un discorso di protesta, politico e con una prospettiva di genere; che ci racconta la vita quotidiana in modo delicato e artigianale.

Hyuro non ha parlato di lei … Piuttosto, parlava con lei stessa. Ha usato la parete come uno specchio in cui cercare costantemente ed è, in questo processo infinito, che la sua pittura ha distillato l’eco di quella conversazione.

Mentre ci avviciniamo al suo lavoro, sperimentiamo l’attrazione di qualcuno che trova una  finestra aperta. Hyuro ci fa questo regalo con ogni parete che ha dipinto, permettendoci di  conoscere un po ‘di più su di lei ma, soprattutto, un po’ di più su noistessi.

In questo esercizio di riconoscimento, ci troviamo di fronte all’evidenza che la selvatichezza è uno stato primordiale in cui siamo tutti uguali. Le persone che vediamo sui suoi murales non sono nessuno e sono ognuno di noi… donne,lupi, bambini, amanti…. gli altri. Sì, gli altri».

Victoria Cervantes

FONTI
DissenyCV. Revista digital de disseny i cultura visual. Noviembre 20, 2020
Gràffica. Revista digital. Diciembre 30, 2018. Escribe Verónica Joce

THE SQUARE

THE SQUARE

Ruben Ostlun

Diretto da Ruben Ostlun, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2017, a parer nostro è un film irriverente e molto interessante. Per apprezzarlo, si deve volgere lo sguardo e l’interesse alle dinamiche relazionali e ai processi che le sottendono. Occorre, inoltre, non distogliere mai lo sguardo dal contesto più ampio in cui sono immersi: il rischio è di trovarlo noioso e incomprensibile se ci si sofferma sui singoli contenuti. Infatti potrebbe sembrare un insieme di scene scollegate le une dalle altre che poco contano rispetto alla storia raccontata.

“Come in un museo si passa da una sala all’altra, godendo del momento ma non avendo bisogno di un filo conduttore che dia un significato collettivo alle opere, così in The Square assistiamo a una gag dopo l’altra, senza che queste impattino in nessun modo sul significato del film.

Luca Ciccioni

La trama racconta la storia di Christian curatore di un museo d’arte contemporanea di Stoccolma che decide di accogliere una nuova istallazione di una artista argentina: The Square. Si tratta di un piccolo spazio quadrato all’interno del quale tutti hanno gli stessi diritti e doveri. L’opera d’arte vorrebbe quindi rappresentare i più alti valori dell’umanità: l’attenzione verso l’altro, la fiducia, la comprensione e la condivisione. Purtroppo Christian affida la promozione della mostra ad un’impresa di pubbliche relazioni, la cui strategia di marketing risulterà fallimentare. Inoltre, anche la strategia utilizzata per recuperare il cellulare rubatogli qualche giorno prima risulterà inefficace e dannosa al punto che la sua vita verrà in qualche modo sconvolta

La trama racconta la storia di Christian curatore di un museo d’arte contemporanea di Stoccolma che decide di accogliere una nuova istallazione di una artista argentina: The Square. Si tratta di un piccolo spazio quadrato all’interno del quale tutti hanno gli stessi diritti e doveri. L’opera d’arte vorrebbe quindi rappresentare i più alti valori dell’umanità: l’attenzione verso l’altro, la fiducia, la comprensione e la condivisione. Purtroppo Christian affida la promozione della mostra ad un’impresa di pubbliche relazioni, la cui strategia di marketing risulterà fallimentare. Inoltre, anche la strategia utilizzata per recuperare il cellulare rubatogli qualche giorno prima risulterà inefficace e dannosa al punto che la sua vita verrà in qualche modo sconvolta

I temi su cui noi ci siamo soffermate sono due. Il primo riguarda lo statuto dell’opera d’arte nella modernità. A tal proposito è interessante prendere in analisi il dialogo d’apertura del film. Il protagonista partecipa ad un’intervista dove gli viene chiesto il significato di un estratto dal sito web della nuova mostra del museo di arte moderna presso il quale è il curatore dell’esposizione artistica. Citiamo il film: “esposizione/non esposizione, una conversazione serale che esplora le dinamiche dell’esponibile e le costruzioni della sfera pubblica nel sight/non sight di Robert Smithson. Dal non sight al sight, dalla non esposizione all’esposizione qual è il topos dell’esposizione/non esposizione nel momento della mega esposizione?”. Tutto ciò viene spiegato con una domanda: “se per esempio mettiamo un oggetto nel museo, questo può rendere quell’oggetto un pezzo d’arte?”.

Non possiamo non essere invitati al parallelismo con la terapia per due motivi. Il primo riguarda il contesto in cui è inserito un messaggio. Ci ricorda tanto l’affermazione Batesoniana di “questo è un gioco” che di per sé ci permette di entrare nel livello della metacomunicazione: “questa è un’opera d’arte perché è inserita in un contesto artistico e perché, forse, vuole trasmetterci un messaggio”.

Cos’è l’arte? Quando possiamo dire che qualcosa è arte? E allo stesso modo cos’è la terapia? e quando possiamo dire di stare facendo terapia?

La seconda è che non c’è una risposta univoca: messaggi, contesto si fondono nella cornice della relazione che permette di dire: “questa è una terapia” e “questa è un’opera d’arte”, sempre e comunque per me/per noi nella dimensione temporale del qui ed ora.

Il secondo tema per noi molto interessante è quello dell’equivoco. Sembra che i messaggi e l’intenzione comunicativa del soggetto vengano costantemente fraintese dall’altro. I soggetti dialoganti infatti sono inseriti all’interno di contesti e sistemi che trasformano costantemente il contenuto del messaggio, sembra che tutto sfugga di mano e non si capisce come si è potuta creare una certa situazione. La nostra opinione è che in realtà manchi l’ascolto, manca totalmente la consapevolezza che c’è un altro che ascolta, un altro che ha le proprie premesse, pensieri , emozioni. Sembra esserci la volontà di dire ma non quella di essere compresi e di comprendere la risposta altrui, cosa comprenderà l’altro? Come risuonerà in lui il mio messaggio? A chi desidero indirizzare il mio messaggio? Con quale fine? Ragionando in questi termini ci domandiamo se persino la propria consapevolezza, di ciò che si vuole dire e di come stiamo, sia presente nei protagonisti di questo film.

Grazie al sapiente e strategico uso dell’ironia il registra ci spiazza e ci invita alla riflessione, anzi alle molteplici riflessioni che quest’opera può suscitare in ciascuno di noi, proprio come un’istallazione artistica in grado di suscitare diversi significati in base allo sguardo personale. L’ironia e l’irriverenza di questo film sono certamente le caratteristiche che più abbiamo apprezzato, in grado di colpirti emotivamente al punto di trasformare una risata in vergogna. Sì perché il paradosso di alcune scene è inevitabilmente esilarante ma al contempo contiene tutta la tragedia di alcune dinamiche della società attuale.

Valentina Crimella e Marina Gabrieli

 

AUTO-ORGANIZZAZIONE IN MUSICA E TERAPIA

“Ciononostante, dobbiamo creare una musica che sia come un arredamento – una musica, cioè, che sarà parte dei rumori dell’ambiente, che li prenderà in considerazione. La penso melodiosa, che ammorbidisca i rumori di coltelli e forchette, non che domini, non che s’imponga. Riempirebbe quei gravi silenzi che a volte cadono fra amici che cenano insieme. Risparmierebbe loro il disturbo di stare attenti ai propri stessi commenti banali. E allo stesso tempo neutralizzerebbe i rumori della strada che entrano con tanta indiscrezione nel gioco della conversazione. Fare una tale musica sarebbe rispondere a una necessità.”

Erik Satie

AUTO-ORGANIZZAZIONE IN MUSICA E TERAPIA

Erik Satie

Eno è stato il teorico più coerente di una musica che “facesse ambiente” da un lato, e che derivasse da precisi principi dall’altro. Una musica in cui il ruolo del creatore fosse semplicemente quello di predisporre un sistema, in questo caso un insieme di due registratori in serie, come da diagramma, che producono un costante “ritorno” di tutti i suoni immessi, con uno strano miscuglio di ripetizione e calma inesorabilità.

Discreet Music

Dato che ho sempre preferito fare piani che eseguirli, ho sempre gravitato verso situazioni e sistemi che, una volta resi operativi, potessero creare musica con un intervento minimo o nullo da parte mia.

Come dire che io tendo al ruolo di pianificatore e programmatore, e poi divento parte del pubblico del risultato.

Questo album esemplifica due modi di soddisfare questo mio interesse. Discreet Music è un approccio tecnologico al problema. Se esiste uno spartito per questo pezzo, non può che essere il diagramma operativo dello specifico apparto che ho usato per la sua produzione. La configurazione chiave qui il lungo sistema di eco ritardato su cui sperimento da quanto mi sono reso conto delle possibilità musicali dei registrati a nastro, nel 1964. Avendo messo in opera questo apparato, la mia partecipazione a quanto ha fatto ion seguito si è limitata (a) a fornire un input (in questo caso, due linee melodiche semplici e mutuamente compatibili di durata diversa, immagazzinate in un sistema digitale, e (b) occasionalmente alterare il timbro dell’output del sintetizzatore usando un equalizzatore grafico.

È una questione di disciplina, accettare questo ruolo passivo e , per una volta, ignorare la tendenza fare l’artista, giocando e interferendo. In questo caso, mi aiutava l’idea che quanto stavo facendo fosse semplicemente uno sfondo per le improvvisazioni del mio amico Robert Fripp in una serie di concerti che stavamo programmando. La nozione di questa utilità futura, insieme al mio gusto per i “processi graduali” mi ha impedito il tentativo di creare sorprese e cambiamenti meno che prevedibili nel pezzo. Cercavo di fare un pezzo che si potesse ascoltare, ma anche ignorare… forse nello spirito di Satie che voleva fare musica che potesse “ammorbidire i rumori di coltelli e forchette a cena”

Brian Eno, 1976

LA MUSICA SPERIMENTALE

“Dovunque noi siamo, quel che sentiamo è soprattutto rumore. Quando lo ignoriamo, ci disturba. Quando lo ascoltiamo, lo troviamo affascinante. Il suono di un camion a settanta all’ora. Elettricità statica alla radio. Pioggia.

… La prima domanda che mi faccio quando qualcosa non mi sembra bello è perché penso che non sia bello. E rapidamente scopro che non c’è”

John Cage

MUSICA SPERIMENTALE

John Cage

John Cage è considerato forse il più importante compositore americano della seconda metà del Novecento. Ha scritto 4’33”, un pezzo in cui il pianista NON suona il piano per quattro minuti e mezzo, costringendo gli ascoltatori a sentire il silenzio e tutti i suoni che quel silenzio contiene.

Ha inventato il piano preparo, una via di mezzo tra pianoforte e percussioni (ne abbiamo parlato qui. Ha scritto composizioni generate con l’aiuto del caso.

Perché parlare di Cage, oggi, e agli psicoterapeuti per giunta? Perché Cage, ultimo di una lunga lista di artisti, nella musica e fuori, ha giocato tutta la sua esistenza sul non dare nulla per scontato, sul creare spazi di ascolto non convenzionali. La questione non è mai stata di far bella musica secondo canoni esistenti, ma di creare il proprio stesso canone: Cage era allievo di Schoenberg, che pare gli abbia detto che era incapace di costruire armonie. Così, invece di intestardirsi o di abbandonare il campo, come altri avrebbero fatto, decise semplicemente di fare un salto di livello. Da lì una musica fuori dall’idea stessa di armonia, che valorizzasse qualunque suono, incluso – per l’appunto – il rumore.

Come i suoi due numi tutelari, Erik Satie tra i musicisti e Marcel Duchamp tra gli artisti, John Cage ha sempre guardato (ascoltato) di traverso: “l’atto di ascoltare è in effetti un atto compositivo”. Questo è un atteggiamento che possiamo tranquillamente definire (per noi) terapeutico. Se non diamo nulla per scontato, significa che facciamo e ci facciamo domande, e che in questo modo possiamo aiutare anche i nostri pazienti a farsene. Poi potranno trovare risposte, o forse fare anche a meno delle risposte. Ma questo sta a loro. Il terapeuta è quello che fa domande, che introduce cornici possibilmente nuove e sperabilmente utili, ma che lascia ai pazienti l’ultima parola.

Cage ha anche sulle emozioni una posizione utile per il terapeuta come noi l’immaginiamo. Spesso la musica è considerata un modo per produrre emozioni, secondo l’idea romantica mai messa in discussione che il compositore deve indurre nell’ascoltatore emozioni specifiche. Cage invece ci dice:

La mia intenzione è stata, nelle mie ultime composizioni, di non obbligare più nessuno a sentire in un modo particolare. Il sentimento è in ciascuno di noi, non nelle cose esterne. (…) Che due persone abbiano dei sentimenti diversi, è ciò che permette loro di dialogare. (…) E talora, quando parlo, dò l’impressione di essere contro i sentimenti. Ma ciò che non tollero è l’imposizione dei sentimenti.

(…) Preferisco di molto questa nozione di dialogo, di conversazione, alla nozione di comunicazione. La comunicazione presuppone che si ha qualcosa, un oggetto, da comunicare. La conversazione alla quale io penso non sarebbe una conversazione che potrebbe portare agli oggetti. Comunicare è sempre imporre qualcosa: un discorso su geli oggetti, una verità, un sentimento. Mentre nella conversazione nulla s’impone.

È qui che Cage mostra l’atteggiamento che noi consideriamo proprio del terapeuta: non abbiamo “cose”, oggetti da scoprire o emozioni da stimolare; abbiamo processi cui partecipiamo, in cui cerchiamo di aiutare l’emergere di qualcosa di nuovo muovendo le cornici, suggerendo nuovi contesti, piuttosto che imponendo le nostre posizioni. E i risultati possono essere davvero inattesi.

Ricordo autobiografico:

la sera del 2 dicembre 1977, John Cage

Tenne un concerto intitolato Empty Words (Parte III) al Teatro Lirico di Milano quella sera. Empty Words era un lavoro per voce sola basato sul Diario di Henry David Thoreau, decostruito attraverso l’uso dell’I-Ching, ottenendo così un testo sempre più rarefatto, composto di semplici suoni organizzati secondo un criterio integralmente casuale. Io c’ero. Il teatro era letteralmente gremito di gente giovane, seduta per terra, ovunque (all’epoca i criteri di sicurezza non erano esattamente quelli di oggi). Cage sale sul palco e il pubblico, che si aspettava una specie di rock star, si trova di fronte un maturo signore seduto a un tavolino con una lampada e un microfono, che con tutta calma inizia a salmodiare sillabe incomprensibili intervallati da silenzi.

Ora, gli ascoltatori, dopo un’iniziale semplice perplessità, anziano a rumoreggiare, dapprima dubbiosi, poi sempre più fragorosi, in un crescendo che trasforma la tranquilla serata in un happening caotico, con gente sul palco e qualcuno che affronta fisicamente Cage. Il quale, imperturbabile, continua nel frattempo la sua performance senza fare una piega – salvo quando qualcuno addirittura cerca di sfilargli gli occhiali.

Io intanto sono lì a cercare di ascoltare. Il tutto va avanti per un’ora e mezza buona, in quella che è ormai una cacofonia totale (per chi fosse interessato, è stata pure pubblicata la registrazione integrale). Alla fine, Cage semplicemente si ferma si alza in piedi. E, dopo un istante di silenzio perplesso, esplode un applauso interminabile.

Del resto, in un altra simile occasione (c’ero anche lì), Cage aveva sostituito una conferenza stampa con un altro monologo incomprensibile, questa volta tratto da Finnegans Wake di Joyce. E a chi, alla fine gli chiese che cavolo di strutture musicali pensava di costruire in quel modo, aveva risposto: “I don’t build structures, I ask questions!” Che, in fin dei conti, è proprio quello che fa un buon terapeuta.

Paolo Bertrando

TRA ARTE E TERAPIA

“Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce. […] Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore devono essere integrate con le ragioni della ragione.”

Gregory Bateson

Arte e scienza , 1967, trad. it. p. 161

TRA ARTE E TERAPIA

Attraverso lo sguardo di Gregory Bateson

Il padre fondatore di tutte le terapie sistemiche, lo sappiamo, è Gregory Bateson, che non è mai stato terapeuta. Eppure la curiosità verso la terapia è sempre stata parte essenziale del suo pensiero. Già nel 1935 Bateson pensava a una psicoterapia diversa da quella in auge nel periodo. Nel 1951, insieme all’antropologo Juergen Ruesch, Bateson scrive La matrice sociale della psichiatria, un libro che immagina un’evoluzione della psichiatria medesima, che integri in qualche modo la visione di quello che definisce “l’umanista” (una figura prossima a quella dell’artista) e lo scienziato. L’umanista, l’artista, è più portato verso la terapia:

“L’umanista sarà sicuramente avvantaggiato nella seduta terapeutica, perché libero di rispondere prontamente e tranquillamente, come un essere umano che si trova di fronte al paziente che è un suo simile. […] L’umanista, come l’artista, può agire spontaneamente a causa della propria integrità e non ha bisogno di fermarsi sempre per stabilire esattamente che cosa sta dicendo.

Gregory Bateson

1951, trad. it. pp. 302-303

D’altro canto, l’umanista non riuscirà a fare scienza, proprio perché le sue intuizioni non possono essere né trasmesse come tali, né tantomeno accumulate. Dal canto suo, lo scienziato che Bateson definisce “circolarista” è limitato dalla sua necessità di definire i termini, che però gli permette di costruire modelli e di essere sempre consapevole del proprio agire.

Lo scienziato […] proprio da questa coercitività e precisione è reso goffo e privo di grazia e di disinvoltura nell’interazione, di cui avrebbe bisogno per essere un bravo terapeuta. Egli può passare anni a costruire le formule matematiche che descrivono l’interazione, mentre l’umanista può apprendere di più su come interagire trascorrendo poche ore in una sala da ballo.”

Gregory Bateson

1951, trad. it. p. 303

Questa scissione rigida tra la figura dell’artista e quella dello scienziato ha certo radici biografiche forti. La più forte di tutte è l’interdetto paterno. William Bateson, padre padrone e severo carattere vittoriano, era zoologo ed è a tutt’oggi ricordato per aver inventato la parola “genetica”. Per William l’arte apparteneva al dominio del sublime, che solo il genio sarebbe stato in grado di raggiungere. Quindi inattingibile per i Bateson, che avrebbero dovuto limitarsi al più consono e modesto dominio della scienza. Nelle parole di Gregory:

La visione di W.B. della letteratura e dell’arte era che erano la cosa più grande del mondo, ma che nessun Bateson sarebbe mai stato capace di contribuirvi. Arte, per lui, significava il Rinascimento, più o meno, e naturalmente nessuno nel ventesimo secolo poteva fare arte rinascimentale. Ma la scienza era qualcosa che si poteva fare. Era più conscia. Non dipendeva dal genio, essendo il genio una qualche sorta di daimon interiore.”

Gregory Bateson

Bateson in Lipset, 1980, p. 93

(Quando aveva scoperto che il secondo figlio, Martin, voleva dedicarsi alla poesia e al teatro lo aveva rampognato duramente, proibendogli di dedicarsi all’arte e Richie cogli di tornare agli studi di biologia. Non fu per questo, probabilmente, che Martin finì per suicidarsi sotto la statua di Eros a Piccadilly Circus, ma c’è da credere che abbia contribuito – e che Gregory non l’abbia mai dimenticato)

Eppure c’è, in questa visione, qualcosa che Bateson si porterà sempre dietro: l’idea che nell’arte ci sia qualcosa “di più”, che l’arte – in un certo senso – abbia già detto tutto. In qualche modo Gregory lo dice anche in questa pagina di Naven:

L’artista […] può permettere che molti degli aspetti più fondamentali della sua cultura siano tratti non dalle sue parole, ma dai suoi accenti. Può scegliere parole il ci suono è più significativo che il loro significato da dizionario e può raggrupparle e sottolinearle così che il lettore quasi inconsciamente riceve informazioni che non sono esplicite nelle frasi e che l’artista troverebbe difficile – quasi impossibile – esprimere in termini analitici.”

Gregory Bateson

1935, pp. 1-2

C’è qui già la posizione problematica di Bateson nei confronti della finalità cosciente, che trova proprio nel dominio dell’estetica una possibilità di superamento senza dover per forza cadere nell’irrazionalismo.

Sostiene Jay Haley (il cui incontro con Bateson avvenne parlando di cinema) che da principio il metodo batesoniano lo aveva confuso: lui, Haley, indagava i contenuti del cinema, partendo da una prospettiva freudiana, mentre Bateson aveva un interesse unicamente formale verso il cinema – come verso l’arte, o, peraltro, verso qualunque altro argomento.

Io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce. […] Perché si possa conseguire la grazia, le ragioni del cuore devono essere integrate con le ragioni della ragione.”

Gregory Bateson

1967, trad. it. p. 161

In altre parole: l’arte è integrazione di conscio e inconscio, con qualche riferimento a Freud. Ma, se per Freud l’arte (come il motto di spirito) è soprattutto rivelazione dell’inconscio, per Bateson il processo è più radicale: l’arte svela appieno l’insufficienza della finalità cosciente, restituendo all’inconscio il suo ruolo primario, “costretto – come la prosa – nel letto di Procuste della logica”.

Paolo Bertrando

GENERE: RICERCA DEL TEMPO PERDUTO, MARCEL PROUST

“Desideriamo essere capiti, perché desideriamo essereamati, e desideriamo essereamati perché amiamo. La comprensione degli altri è indifferente, e il loro amore è importuno.”

Marcel Proust 

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Marcel Proust

Commento al testo fatto da
Paolo Bertrando

Possiamo pensare che la fluidità di genere sia cosa degli ultimi dieci anni, e che possiamo trovarne tracce solo nei testi di Beatrix/Paul Preciado, o nel famoso Middlesex di Jeffrey Eugenides. Nei eye di più falso: senza arrivare a scomodare i classici greci o latini (che pure si risparmiavano poco quanto a scostamenti dal binarismo sessuale), possiamo trovare un vero e proprio inno alla fluidità di genere – o quantomeno di scelta d’oggetto – nelle tremilacinquecento pagine dell’immensa Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.

Libro fin troppo vasto, che scoraggia sicuramente il lettore contemporaneo, la Recherche è ben altro che la serie di peripezie di tanti personaggi ricchi e viziati sullo sfondo della Parigi della Belle Époque. I personaggi di Proust – che da parte sua manteneva una quota non indifferente di duplicità, sia pure sempre ben nascosta – rivelano costanti spostamenti lungo lo spettro di genere. Così Odette, grande amore di Swann nell’omonima sezione del romanzo,  non solo lo tradisce con svariati uomini, ma lascia scoprire, provocando il massimo delle gelosia, alcune intimità con altre donne. L’intransigente, solenne, machista Barone di Charlus, il personaggio più sfaccettato del romanzo, è devoto alla defunta consorte, ma allo stesso tempo è reclutatore di amanti (maschi) giovani e vecchi, fino a rivelare un’insospettata vena sadomasochistica negli anni bui della guerra.

In tutto questo il narratore (che, giova ricordarlo, non è Proust ma una sua rielaborazione) continua ad apparire tanto ingenuo quanto risolutamente eterosessuale e binario. Ma è proprio questo suo candore a permettere all’autore di addentrarsi in un labirinto di duplicità e dubbio, con continui cambi di passo e imprevedibili cambiamenti dei personaggi. Che emergono sempre diversi a seconda del contesto in cui si trovano, mutando con il mutare delle coordinate sociali in cui si muovono. È evidente che tutto questo si alimenta delle duplicità, ambiguità e fluidità di Proust (autore) stesso,  che sembra far parlare tra loro le tante sfaccettature di se stesso, in una inconsapevole quanto geniale anticipazione di tutte le teorie del “sé dialogico” che sarebbero arrivate quasi un secolo più tardi. A dimostrazione che, come ha detto Bateson in più di un’occasione, scienziati e teorici arrivano sempre arrancando in zone dove gli artisti erano già arrivati, con tranquilla levità, molto prima di loro.

Paolo Bertrando